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Una misura per abbattere il calo dei laureati

Diritto allo studio L'abbattimento delle tasse universitarie va finanziato dalla fiscalità generale, da rendere sempre più progressiva

Pubblicato quasi 7 anni faEdizione del 9 gennaio 2018

La proposta di abolire la contribuzione studentesca, per l’accesso all’Università, fatta domenica da Pietro Grasso durante l’assemblea di Liberi e uguali, ha suscitato un grande dibattito. E mi sembra un’ottima cosa.

Ma proviamo a mettere in fila alcuni dati.

1.L’Italia ha solo l’8% di beneficiari di borse di studio universitarie ed è, al contrario, al terzo posto in Europa per pressione fiscale sugli studi accademici.
Insomma tasse più care e borse di studio insufficienti.

2. Negli ultimi cinque anni mentre l’ammontare della contribuzione studentesca è cresciuto del 14,5%, diminuiva il fondo di funzionamento ordinario per l’Università (Ffo);

3. Siamo penultimi in Europa per numero di laureati. Secondo i dati forniti da Eurostat 2017 gli adulti tra i 30 e i 34 anni che hanno completato gli studi universitari sono solo il 26,2% della popolazione. Ben lontano da quel 40% di laureati previsto dal programma Europa 2020. Peggio di noi, solo la Romania (25,6%). E per di più siamo un Paese che ha complessivamente solo il 18% di laureati;

4. Non saremmo poi l’unico paese in Europa a fare questa scelta. È cosi in Germania, Scozia, nei paesi scandinavi; in molti altri le tasse universitarie sono bassissime.

Di fronte a questa realtà, la proposta di eliminare la contribuzione studentesca significa venire incontro alle famiglie che sempre di più, in questi ultimi anni, stentano a sostenere le spese per l’Università e cominciare a realizzare quel “diritto allo studio”, previsto dalla nostra Costituzione, sempre proclamato, difficilmente attuato.

Perché poi per studentesse e studenti ci sono i costi dei libri di testo, e in più, per i fuori sede, alloggi e mense non sempre coperti dai contributi regionali. Non dimentichiamo che in Italia esiste la la “perversione” dell’idoneo non beneficiario. Cioè studentesse e studenti che hanno i requisiti per avere borse di studio, mentre i fondi per il diritto allo studio (nazionali e regionali) non bastano per tutti.

È inoltre evidente che sarebbe necessario legare questa misura alla regolarità degli studi (i capaci e meritevoli, appunto). E a un aumento consistente dei fondi per il diritto allo studio nazionali e regionali. Liberando questi ultimi dalla scure del patto di stabilità.

Ecco, non capisco allora tutti i distinguo e le paure.

Il problema, con chiarezza, in Italia è un altro.

1. Nel nostro Paese il basso numero di iscritti all’Università non è, innanzitutto, il risultato di un’arretratezza storica; al contrario c’è stato un calo delle immatricolazioni negli ultimi cinque anni che è stato prodotto da scelte politiche evidentemente sbagliate, che hanno reso sempre più impervio l’accesso ai livelli più alti degli studi. E questo mentre si registrava un pesante processo di impoverimento dei ceti medi.

2. Questo fenomeno, grave e doloroso, si è prodotto in un contesto di pesante sofferenza dell’occupazione giovanile nel quale il possesso di un titolo di studio di più alto livello, come dall’ultimo rapporto di Almalaurea, rappresenta, pur sempre, un vantaggio occupazionale.

3. Infine, non si capisce quali prospettive pensi di darsi un Paese che, strutturalmente, indebolisce negli anni la qualità della sua forza lavoro.

È su questo che interviene la proposta della gratuità dell’accesso agli studi universitari. Occorre infatti rovesciare una tendenza che ha portato a aumentare i costi degli studi proprio mentre si sarebbe dovuto investire per evitare la deriva della descolarizzazione. Questa misura va perciò pensata come tendenzialmente universalistica. E va finanziata dalla fiscalità generale, da rendere sempre più progressiva.

Infine, mi pare inutile ora stare a spaccare il capello in quattro. Se si tratta, come è ovvio, di non rendere gratuiti gli studi dei più abbienti – e solo di questi -, sarà assai semplice trovare in una legge le modalità per farlo.

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