Cultura

Una messa a fuoco sulla resilienza umana

Una messa a fuoco  sulla resilienza umana

Intervista Parla la fotografa azera Rena Effendi

Pubblicato circa 9 anni faEdizione del 9 settembre 2015

Rena Effendi è una fotografa nata in Azerbaijian. Già vincitrice di premi internazionali, dall’11 settembre sarà a Venezia come special guest e membro della giuria di Prisma, Human Rights Photo Contest. L’abbiamo intervistata sulle sue ultime produzioni, «Pipe Dreams: a Chronicle of lives along the Pipeline» e «Zone del Silenzio».

«Pipe Dreams: a Chronicle of lives along the Pipeline». Perché hai scelto questo argomento.
L’idea di percorrere i 1.700 chilometri della pipeline che attraversa l’Azerbaijian, la Georgia e la Turchia, è arrivata dopo alcuni anni durante i quali mi sono occupata di storie umane nel mio paese, l’Azerbaijian. Ho cominciato in un piccolo quartiere di Baku, dove ho testimoniato i cambiamenti sociali; dove c’erano vecchie case che sono state demolite per permettere le nuove costruzioni finanziate dal boom petrolifero. I residenti delle zone impoverite sono stati cacciati e le loro case sono state comprate dai costruttori privati che le hanno rimpiazzate con costruzioni senza volto, cambiando per sempre l’ambiente sociale e architettonico della mia città. Ho deciso che andava esplorata l’altra faccia del boom petrolifero attraverso la documentazione dei costi umani di questo tipo di economia.

In che modo hai lavorato per fissare in più foto la resilienza umana in ambienti come i territori delle pipeline, che significano per lo più potere, soldi e guerre?
Nel piccolo villaggio di Yumurtalik, in Turchia, ho incontrato un gruppo di pescatori che ha assunto un avvocato per rappresentarli legalmente contro la compagnia che gestisce la pipeline, dato che gli era stato promesso un rimborso mai arrivato. L’area di sicurezza della baia era stata allargata per il traffico dovuto alla pipeline e in questo modo i pescatori non potevano più pescare in quella zona di mare. Come risultato hanno perso l’attività che permetteva la loro sussistenza. Quando li ho incontrati mi hanno detto che ero la prima giornalista a parlare con loro. Ho capito che quelle persone volevano avere una voce, perché le loro motivazioni erano nascoste dalla macchina della propaganda governativa. Il successo di questi mega progetti finisce per zittire le persone normali che vivono in zone che producono milioni di dollari ogni giorno, senza che niente di questo benessere arrivi a loro. Ero scioccata del contrasto tra il benessere della pipeline e il resto. Per questo ho ritratto queste persone, le loro storie personali. Si tratta di persone che hanno subito false promesse di un futuro migliore, di speranze che non sono state mantenute.

In che modo descriveresti, invece, il viaggio tra la Russia e i paesi ex Urss?
Sono nata in un paese e quando sono diventata teenager era già cambiato, non solo nel nome, ma da un punto di vista politico, sociale, ideologico ed economico. Ricordo che a scuola i libri vecchi non si dovevano più usare, ma quelli nuovi non erano ancora pronti. Il nostro insegnante ci dettava i suoi appunti di storia, per come la conosceva lui. Credo che sia capitato a tanti, c’era la necessità di inventarsi una nuova vita.

Ho visitato il Nagorno Karabakh e quando ho visto il titolo della tua mostra, «Zone del Silenzio», ho pensato subito a quei territori. Come hai vissuto quella guerra e in che modo ha influenzato la tua produzione artistica e giornalistica.
Ci siamo svegliati all’improvviso ed eravamo in guerra con i nostri vicini armeni per contenderci il Nagorno Karabakh. Questa guerra ha completamente cambiato la nostra identità post sovietica. Oggi le lezioni di odio e di sfiducia sono insegnate nelle scuole dei due paesi. Le immagini di quei tragici eventi costituiscono la memoria di ogni persona dei due paesi. Vi è una sorta di gara di propaganda tra gli Stati. Come potremo mai intraprendere la strada della pace? Sembra che nella psiche del popolo il divario tra noi stia crescendo in modo sempre più ampio.

Questo è stato un grande problema di identità, qualcosa con cui ho lottato come fotografa.

Sono stata in grado di documentare le condizioni dei rifugiati dal conflitto del Nagorno-Karabakh sul lato azero. Non ho potuto viaggiare in Armenia o Nagorno-Karabakh e fare lo stesso lì. Indipendentemente da ciò che io considero giusto e il mio atteggiamento nei confronti di questo conflitto, credo che la risoluzione pacifica sia l’unico scenario possibile. Questo conflitto è stato in un limbo fino al 1994, ventuno anni sono passati da quando è stato firmato un accordo di cessate il fuoco. Oltre un milione di profughi e sfollati interni sono ancora nei campi e negli insediamenti dove si sentono completamente sradicati. Hanno ormai perso la speranza di tornare alle loro case. Una nuova generazione di bambini sta nascendo lì – a cosa darà vita questo irrisolto conflitto che muta la loro identità?

Cosa hanno in comune Georgia, Chernboyl, Congo e Sud Dakota? (le «zone del silenzio»)
La resilienza silenziosa. Ho provato a catturarla nei volti delle persone che ho incontrato in questi viaggi. Sulle labbra di un prete georgiano che andava a Gori a recuperare i corpi di soldati morti, negli occhi di una giovane congolese che ha assistito al massacro della sua famiglia ad opera della Lord Resistance Army, nel sorriso sfocato di una donna anziana in una foresta nei pressi di Chernobyl, nelle rughe di una madre dei nativi americani nel Nord Dakota violentata da bambina. Tutti loro sono sopravvissuti a conflitti, perdite, ad abbandoni – tutti sono usciti più forti da circostanze tragiche. Le vecchie donne di Chernobyl hanno scelto di tornare e coltivare le terre contaminate. Sono rimasto sorpreso di incontrare una donna in Congo le cui labbra sono state tagliate dal Lra (Lord Resistance Army) lei mi ha sorriso e mi ha chiesto se potevo mandarle la foto. Ha detto che non era mai stata fotografata prima. Sono rimasta sconvolta in un primo momento, perché ho pensato che un ritratto del suo volto sfigurato le avrebbe ricordato il trauma, ma poi ho capito che lei aveva imparato a vivere e far fronte alla sua tragedia e che le cicatrici sul suo viso erano meno visibili a lei che a me.

Prisma

Prisma vuole essere non solo un concorso fotografico, ma anche un appuntamento internazionale per la fotografia e i diritti umani. Il «Photo Contest» ha scelto come tema di quest’anno il concetto di libertà. Le venti immagini finaliste sono in mostra assieme agli scatti di Rena Effendi, invitata come special guest photographer, per configurare l’importanza della «Libertà», intesa come diritto umano fondamentale da difendere: libertà dall’oppressione, di parola e di fede, libertà dalla paura, libertà di movimento, libertà di pensiero e libertà di opinione. Il progetto espositivo apre le porte l’11 settembre al Lido di Venezia, durante la 72. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, presso il Monastero di San Nicolò, sede dell’EIUC, the European Inter-University Centre for Human Rights and Democratisation.

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