Una mappatura dell’arte nella realtà senza conflitti
A teatro enough not enough dice quest'anno il titolo del festival di Santarcangelo
A teatro enough not enough dice quest'anno il titolo del festival di Santarcangelo
Tornare a Santarcangelo, di anno in anno, può essere un buono strumento di misura dello stato dell’arte teatrale. Come un oscilloscopio che da tempo però non registra più grandi movimenti sussultori e forse non vale solo per l’arte teatrale. Prevale a tutti i livelli una cultura del consenso che esclude per principio conflitti e contraddizioni. Niente deve far male, niente deve risultare «divisivo», anche la diversità che è contemplata non deve sfociare in una pericolosa differenza.
enough not enough dice quest’anno il titolo del festival (pare inevitabile la lingua inglese, bisogna rassegnarsi). Vuol dire forse il rispecchiarsi di realtà e desiderio, o l’emergere di una realtà che non basta a sé stessa. Dove il racconto della realtà cede il passo a strategie che permettono di vivere una realtà che ancora non c’è, scrive il direttore artistico Tomasz Kirenczuk. Sulla piazza Ganganelli non c’è più lo striscione che diceva «L’Italia ripudia la guerra», appeso in faccia al palazzo comunale. E non c’è da stupirsene visto lo scempio che intanto si è fatto, nel discorso pubblico, delle parole su cui si fonda la nostra costituzione. Questa è la realtà attuale, intanto.
PIÙ CHE UNA linea unitaria nel programma del festival sono visibili dei fili conduttori. Quello che porta al femminile ad esempio, esemplificato da una serie di assoli che mettono il corpo al centro di una scena vuota. «Corpo al lavoro» come nel Workpiece di Anna-Marija Adomaityte, lituana basata a Ginevra, che per qualche decina di minuti cammina con volto inespressivo su un tapis roulant mentre con le mani ripete i gesti di una qualche attività manuale. Corpo alla ricerca della propria identità sessuale è quello della canadese Dana Michel che in Cutlass spring mette in atto la lotta per liberarsi del proprio abito e trovarne alla fine un altro, chissà se davvero definitivo. Mentre la coreografa brasiliana Ana Pi in The divine Cypher insegue la memoria della filmmaker statunitense Maya Deren, di cui vediamo l’iconico ritratto che compare nel primo lavoro, anno 1943, deformarsi sul panno appeso dov’è proiettato.
Si rivede con piacere Catol Teixeira, brasiliana di Ginevra che in Clashes licking si presenta ondeggiando appesa a una fune, memore dell’apprendistato nelle tecniche del circo; per poi dare sfogo alla sua danza, indosso un vestitino di un leggero materiale trasparente e ai piedi un paio di ballerine a evocare una classicità che guarda spudoratamente all’Après-midi d’un faune di Nižinskij.
Più che una linea unitaria nel programma del festival sono visibili dei fili conduttori. Quello che porta al femminile ad esempio, esemplificato da una serie di assoli che mettono il corpo al centro di una scena vuota. «Corpo al lavoro» come nel Workpiece di Anna-Marija Adomaityte,
PUÒ SEMBRARE allora una pausa salutare quella offerta da Basel Zaraa a uno spettatore per volta, il quale poi è piuttosto un ospite o un testimone della vicenda familiare dell’artista palestinese, trasportata in una stanza delle ex carceri che ancora reca le tracce di chi vi fu recluso. Dear Laila è la Nakba spiegata alla figlia attraverso l’immagine della casa dov’era cresciuto, nel campo profughi di Yarbuk. La casa è rimasta in piedi solo nella memoria e qui se ne offre una ricostruzione in miniatura, appoggiata su una scrivania accanto alla cornice con le foto di famiglia. Si guarda, si ascolta, si prendono in mano gli oggetti. Alla fine, il problema è stato forse non aver mai preso sul serio la nonna quando metteva un po’ di sale sulla testa dei nipoti per tenere lontano le disgrazie. Lo spettatore trova in un cassetto del sale e una scatolina di fiammiferi da riempire. Magari è questa la realtà alternativa in cui confidare.
CI SI SPOSTA a Longiano, in un teatro vero, per assistere al più pretenzioso spettacolo di Ntando Cele e Julian Hetzel, lei performer sudafricana oggi di casa a Berna, lui regista musicista e artista visivo olandese. SPAfrica è un minestrone di assai fragile impianto drammaturgico, a base di razzismo e sfruttamento capitalistico, riscattato dalla violenza dell’interprete. Lo spunto è la parodia di un dibattito in cui l’artista spiega il suo progetto di scambio empatico fra Africa e Europa, acqua in cambio di lacrime, ha anche realizzato un attrezzo da porre sul viso per raccoglierle. Ma si capisce subito che non è lui, non solo per la voce contraffatta. E infatti quando si toglie la maschera e spunta fuori l’attrice con un bel completino zebrato anche lo spettacolo cambia ritmo. Lei ringhia e canta: Voglio essere il cane che morde la mano che gli dà da mangiare. Ma non servono nemmeno gli antichi «insulti al pubblico» a introdurre un elemento di disturbo, che cosa siete venuti a vedere. Che alla fine è tutto in piedi applaudire, il pubblico.
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