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Una mappa per domani

Una mappa per domani"Pagliacci" di Marco Bellocchio

Festival di Venezia 73 Sette titoli per il cinema del futuro alla Settimana della Critica

Pubblicato circa 8 anni faEdizione del 27 agosto 2016

Sic@sic, è la siglia della nuova sezione che la Settimana della critica ha lanciato quest’anno. Sostenuta dall’Istituto Luce Cinecittà, rappresenta una delle scommesse di punta nella Mostra numero 73. L’idea è infatti quella di comporre attraverso i sette titoli, realizzati tutti da registi molto giovani (anagraficamente e professionalmente) una sorta di mappatura possibile del cinema italiano a venire il più differenziato per storie, supporti, temi, forme della narrazione, per scoprire i talenti che fabbricano oggi il nostro immaginario. Le sue spinte meno docili, non formattate, quell’energia che la nuova legge sul cinema non contempla, anzi penalizza, e che invece sta dietro i film riconosciuti e apprezzati nel mondo.
Ispiratore e un po’ «nume tutelare» della neonata sezione è Marco Bellocchio, il più giovane dei nostri registi, uno dei pochissimi che nel tempo non si è mai adagiato su se stesso, capace di giocare con i luoghi del suo cinema per reinventarne liberamente altre traiettorie a ogni nuovo film.
Pagliacci, fotografato da Daniele Ciprì lo ha realizzato con
gli allievi del laboratorio Fare Cinema di Bobbio, dove sono nati tutti i suoi film più recenti. C’è l’opera,  Pagliacci, anche se senza orchestra, e ci sono le prove dello spettacolo nel teatro di paese. C’è una cena di famiglia coi rancori e le frustrazioni dei figli nei confronti della madre. Un confronto e un intreccio che lasciano affiorare l’universo bellocchiano per spiazzarlo.
Fatima Bianchi: Notturno. Un anno fa da Milano si è trasferita a Marsiglia, seguendo il desiderio di sperimentare anche un altro ambiente di lavoro. Milano però non l’ha abbandonata del tutto, ma la dimensione del crossover è quella che caratterizza la sua ricerca. Artista oltreché cineasta (i suoi lavori sono stati presentati in numerosi festival cinematografici e spazi dell’arte, tra cui Vision du Réel, Cinema Vérité Iran, Les rencontres International, Premio Sergio Amidei, la Fondazione Merz di Torino, Casa Testori) l’abbiamo conosciuta con Tyndall (premio Prospettive Filmmaker Festival 2014), un corto autobiografico senza la prima persona. Girato in una villa che sembra fuori dal mondo, segue i riti di una famiglia, la sua, in un groviglio di relazioni, silenzi soffocanti, rimozioni dolorose.
Notturno lavora con un gruppo di donne cieche. Racconta la regista: «L’idea è nata in una serie di workshop che ho tenuto all’istituto dei ciechi di Milano. Ho provato a avvicinarmi a queste donne, al loro modo di vedere, di sentire, sognare e di vivere. Mi sono fatta guidare dalle loro voci come fossero dei paesaggi, narrazioni quotidiane che prendono vita in un immaginario visivo al limite dell’oscurità».
Sulle immagini si accavallano le voci, parlano di acqua, delle crepe su un sasso che la mano accarezza, dell’odore di un cielo al tramonto, della morbidezza di un gatto che ti sfiora davanti al fuoco del caminetto. Crepitìo. Sensazioni: liscio, ruvido. Come sarà la luna? «Chi non ha accesso ad un’esperienza visiva dello spazio pensa al tempo in modo diverso? Quali strutture sono implicate nella percezione del tempo e di altri concetti astratti quando non è possibile vedere? Sono queste le domande a cui ho cercato una corrispondenza nelle immagini».
Maria Giovanna Cicciari: Atlante 1783.
Milanese, nel 2012 ha vinto il Premio Speciale della Giuria al Torino Film Festival con In nessun luogo resta, mentre il suo film precedente, La natura delle cose, si era imposto nel concorso In Prima Persona – Filmmaker Festival nel 2009, e il più recente, Hyperion, ha conquistato il Premio Sergio Amidei 2015 e è stato presentato alla Mostra internazionale del nuovo cinema di Pesaro quest’anno. Tutti i suoi film sono in pellicola, una scelta poetica che corrisponde alla ricerca dentro e fuori ai bordi della sua immagine di una materialità del cinema. Atlante 1783 racconta il terremoto che nel Settecento distrusse una grande parte della Calabria. Dice l’autrice: «Il mio film è un’atlante, nel senso di una raccolta di immagini accostate fra di loro, che mostrano indistintamente, senza rapporti di linearità il passato e il presente. Ho girato in 16 millimetri con alcuni inserti in Hd. L’uso della pellicola rende nelle immagini una materialità simile al supporto cartaceo delle stampe antiche che raccontano il terremoto e che sono presenti nel film».
A partire da una visione di Goethe, che ha una premonizione a distanza del cataclisma, l’autrice cerca la memoria di quella ferite. I luoghi, come erano e come sono oggi, il tempo sospeso di un passato e la sua presenza nei gesti e nelle epifanie di chi ora li abita .
Chiara Leonardi: Alice.
Milanese, ventitre anni, filma da quando ne aveva sette con la Panasonic dei genitori. Protagonista di ogni fotogramma è la sua famiglia: le vacanze, il Natale, una spensieratezza che con l’ingenuo sentimento di eternità dell’infanzia sembra impossibile intaccare. A un certo punto, quando ha dodici anni, lo schermo diventa nero: sua sorella Francesca si ammala e lei decide di non filmare più. Cosa è accaduto? Dove si sono perduti quei momenti, quei sogni? A distanza di anni la regista ne cerca i segmenti fuori dai bordi dell’inquadratura. «Volevo esplorare il senso di un grande dolore e i suoi effetti, nel mio caso è la malattia di mia sorella ma la perdita dell’innocenza che provoca è universale. Ho cercato di tirare fuori il coraggio per affrontare questo evento così importante nella mia vita, di cui fatichiamo ancora molto a parlare. È stato un processo lungo e doloroso».
Fast forward, rewind: le immagini vanno avanti e dietro, l’autrice non chiude, lascia i suoi materiali sospesi come il filo di quei ricordi, la memoria delle sue immagini. «Per riempire il vuoto di immagini ho utilizzato i miei diari, scrivevo sempre, scrivo ancora, le parole mi hanno aiutata a delineare quello che volevo rappresentare»

Edoardo Ferraro: Colazione sull’erba.
Un tableaux vivant: dei ragazzi seduti su un prato nella stessa posa del gruppo di amici dipinto da Manet in Colazione sull’erba si passano uno spinello. E ancora: una giovane donna in shorts come la Venere degli stracci di Pistoletto, china di fronte a una catasta di abiti al lato di un enorme sound system. «Quadri da Nuovo Millennio – li chiama Edoardo Ferraro, regista del cortometraggio Colazione sull’erba – «da ammirare senza necessariamente doverli giudicare». I quattro amici protagonisti del corto, scritto con Leonardo Accattoli, si trovano infatti nei boschi delle Marche per partecipare a un rave, ma uno di loro si è perso. A cercarlo insieme ai tre ragazzi c’è un bambino figlio di contadini della zona che si sono barricati in casa, terrorizzati dal passaggio di quelli che ai loro occhi sono degli Unni. Ma non bisogna per forza «capire, inquadrare, condannare», dice ancora il regista che li osserva a una certa divertita distanza, proprio come il loro piccolo accompagnatore.

Rossella Inglese: Vanilla
«Vaniglia è un comportamento sessuale convenzionale, e il termine assume carattere spregiativo nei confronti di coloro che non desiderano espandere i limiti della propria sessualità», spiega la didascalia in apertura del cortometraggio scritto e diretto da Rossella Inglese, classe 1989 e laureata in Digital Filmmaking. La sua protagonista Denise è un’adolescente che ha una relazione col padre, che per questo motivo è sotto processo mentre lei si trova in una casa famiglia. Una gita nel bosco è invece l’occasione per instaurare un rapporto con un coetaneo, mentre nel primo cortometraggio di Inglese – Sara– la casa nel bosco era il luogo metaforico in cui l’ancor più giovane protagonista compiva il traumatico «salto» nella pubertà. Vanilla, continuando a trattare un personaggio femminile adolescente, è invece «un film sul desiderio sessuale in contrasto con le norme comuni e l’educazione sociale» spiega la regista che con la macchina a mano segue la «sua» Denise e sta vicina al suo corpo di adolescente segnato dal tabù dell’incesto.

Elisabetta Falanga, Riccardo Caruso, Roberto Tenace, Luigi Lombardi: Dodici pagine
È una «parentesi autobiografica» Dodici pagine, il cortometraggio collettivo dei quattro ex colleghi della Naba di Milano che insieme – anche se la regia era della sola Falanga – avevano già lavorato a La dolce casa, cortometraggio premio della giuria al Torino Film Festival dello scorso novembre. Dodici pagine è un viaggio onirico tra un palco teatrale e l’ambiente che lo circonda – ancora una volta un bosco – vissuto in prima persona da una bambina che scopriamo essere la manifestazione delle memorie della nonna di Lombardi.
Il corto è infatti tratto dal suo diario che – racconta Falanga – cominciò a dettare a una ragazza quando scoprì di avere l’alzheimer, per salvare i suoi ricordi. «Ma la malattia avanzava troppo velocemente e per questo riuscirono a mettere per iscritto solo undici pagine», peraltro abbastanza illogiche. È seguendo il filo di questa illogicità che i quattro registi «scrivono» la dodicesima pagina con le immagini del cinema.

Valentina Pedicini: Era ieri
È un mare rovesciato ad aprire il cortometraggio Valentina Pedicini, che con un movimento di macchina ci porta poi in riva a conoscere Giorgia, protagonista di un «racconto crudele della giovinezza» ambientato in una sola giornata. Quella in cui dovrà compiere il violento rito di passaggio tra l’infanzia e l’adolescenza, scegliere chi essere in base ai propri desideri e non quelli di un universo maschile «che la accetta finché sta alle loro regole e la respinge quando decide di essere se stessa», dice la regista.
Questo è il primo lavoro di finzione per Pedicini, vincitrice nel 2013 delle Prospettive doc Italia al Festival di Roma e nominata ai David di Donatello con il suo documentario Dal profondo, che seguiva – 500 metri sottoterra – i minatori di Carbonia. La sceneggiatura di Era Ieri è scritta insieme a Francesca Manieri, con cui la regista sta lavorando anche al progetto del suo primo lungometraggio. La particolarità del corto, racconta Pedicini, è l’aver scelto una storia che le appartiene profondamente proprio nel momento del passaggio alla finzione, lavorando per giunta solo con giovani attori non professionisti che parlano nel dialetto della sua regione: la Puglia. «Dovevo chiudere un percorso, e così sono tornata indietro negli anni per raccontare chi ero a quell’età».

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