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Una lucina dalla Basilicata

Una lucina dalla BasilicataAntonio Moresco in "La Lucina"

Film Dal romanzo di Antonio Moresco il film di Fabio Badolato e Jonny Costantino allo Spazio Oberdan di Milano

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 15 dicembre 2018

Presentato in anteprima in Cineteca a Bologna il 31 ottobre scorso, e dopo qualche altra proiezione in alcuni cinema italiani, sarà riproposto a Milano, dopo una prima proiezione di successo, dal 12 al 16 dicembre prossimo allo Spazio Oberdan, il film di Fabio Bodolato e Jonny Costantino “La Lucina”, tratto dal romanzo omonimo, uscito nel 2013, di Antonio Moresco che qui fa anche da protagonista principale assieme al ragazzino della storia, lo straordinario attore bambino Giovanni Battista Ricciardi. “La Lucina” aggiunge un altro bel tassello a quel cinema di ricerca che avanza, sia pure lentamente, in una sorta di fiume carsico del sottosuolo cinematografico italiano. Prodotto dall’indipendente Baco Productions, il film (101 minuti di durata), sceneggiato dallo stesso Moresco e da Jonny Costantino e con la fotografia di Pierluigi Piredda, è stato girato in Basilicata nel comune di Sant’Arcangelo e nella sua frazione di San Barbato. In un posto dove vive un uomo in assoluta solitudine, c’è una cosa che agita il suo animo: si vede in lontananza una lucina che manda una fosforescenza che incuriosisce e inquieta. Si mette così in viaggio per vedere cosa c’è laggiù di fronte alla sua casa. Durante il cammino arriva in una casa povera e dai muri scrostati. Vede un bambino che si fa il bucato da solo, lava i piatti da solo, si cucina da solo. Ha un nome curioso: Stucco. E tra l’uomo e il bambino, l’incontro che sembra tragico e inconcludente, in realtà può preparare scintille di nuova vita. “Vivi da solo nel bosco?” chiede l’uomo. “Sì”. “”Sei tu che accendi la luce nel bosco?”. “Sì, ho paura del buio”. In realtà il bambino vive così semplicemente perché è morto e lo dice lui stesso con un candore disarmante. “Come sei morto?” chiede l’uomo. “Mi sono ucciso” “Perché?” “Mi hanno fatto del male” “Si lo so, questo è un brutto mondo per viverci”. Raccontano i registi, entrambi calabresi di Catanzaro ma viventi a Bologna (Costantino è anche direttore di una rivista interessante come “Rifrazioni”), che hanno al loro attivo tre cortometraggi di peso come “Le Corbusier in Calabria”, “Beira Mar” sul Brasile, “Il firmamento” basato sul testo teatrale di Moresco, e “Sbundo” primo lungometraggio: “La lucina è per noi un film nudo che irradia da un nucleo oscuro. Un film sospeso tra la vita e la morte. Un film sul bambino morto che abita in noi e sulla morte che dobbiamo attraversare per salvare chi amiamo». E così, tra scene senza tempo, in uno spazio che irradia l’essenzialità della natura, tra boschi e calanchi, ruscelli e pietre, dove si sente soltanto il rumore della natura, prosegue il viaggio dell’uomo – protagonista Antonio Moresco, dal viso problematico e affilato, curioso e misericordioso. Racconta lo scrittore del romanzo “Canti del caos”, uno dei protagonisti assoluti della letteratura di questi ultimi decenni: “La lucina è per me un film radicale e intimo, come una messa. Non avrei mai pensato d’interpretare questo film. Non so se soltanto io avrei potuto impersonare il protagonista. Su una cosa però devo dare ragione ai registi: forse un attore professionista non sarebbe andato bene, forse ci voleva una persona nuda, disarmata, senza maschera né armatura, qualcuno che non fosse difeso da un mestiere». E forse occorre anche ritornare al romanzo da cui è tratto il film. E al suo inizio: “Sono venuto qui per sparire, in questo borgo abbandonato e deserto di cui sono l’unico abitante”. E proseguiva, poi, Moresco, all’inizio delle riprese di questo film, motivandone il senso profondo:”C’è bisogno di molto buio per poter vedere la più piccola luce. Perché non bisogna avere paura del buio che c’è anche dentro di noi, ma anzi bisogna accoglierlo e diventare una sola cosa con esso”. Dunque siamo all’autore che si mette continuamente in discussione in uno scambio tra arte e vita, in un radicalismo di cui si sente profondamente la mancanza. Dunque il silenzio e l’apparente vuoto che emana il film non sono una condanna. E non lo è la solitudine se apre le strade per un mondo nuovo e possibile. Così come la morte non è mai definitiva se apre le porte di una rinascita. Questo sembra dirci un film ascetico e religioso (nel senso vitale del rapporto col mistero dell’esistenza non in quello distruttivo del potere della religione ufficiale), semplice e povero, dove sembra non accada nulla. Invece.

Un film che fa ben sperare sul prossimo progetto della coppia dei registi con Antonio Moresco: “Don Chisciotte”, interpretato dallo stesso scrittore e dalla pornostar Valentina Nappi nei panni di Dulcinea (incerto ancora l’attore di Sancho Panza). Un progetto che si annuncia del tutto originale: niente più mulini a vento ma un eroe (anzi antieroe) scaraventato “senza rete nel folle presente”, in un manicomio dove Don Chisciotte è uno dei pazienti e Sancho Panza il suo infermiere e dove ci sono ricoverati che hanno i nomi di Emily Dickinson, Lev Tolstoj, Giacomo Leopardi, Franz Kafka, Emily Bronte, e una Dulcinea che annuncia faville.

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