Cultura

Una luccicanza ai limiti della notte

Una luccicanza ai limiti della notteVassily Kandinsky, «Composition IV», 1911

Diari Riflessioni intorno a «La scomparsa dei colori» di Luigi Manconi (per Garzanti). «Sono sempre impegnato a combattere perché non si trasformi in un vuoto soffocante, ma mi conceda, al contrario, spazio, energia e tempo per un corpo a corpo», afferma l'autore

Pubblicato circa un mese faEdizione del 18 ottobre 2024

Questa dovrebbe essere una semplice, razionale, recensione. Velatamente affettiva, per un libro scritto da un compagno e amico che io considero fraterno, combattivo, caparbio e colto, con cui ho condiviso molto battaglie politiche e civili, non senza contraddizioni e, all’epoca della rivista Ombre Rosse, perfino scelte letterarie: Luigi Manconi. Senonché l’oggetto del mio impegno, il libro, sfugge ad ogni facile catalogazione.

La scomparsa dei colori (Garzanti, pp. 205, euro 20), infatti, non è un testo qualsiasi. Non lo è nessun libro, ma fa la differenza la natura dell’urgenza, dello stato di necessità anche privata, che lo hanno alla fine motivato; e soprattutto la qualità della scrittura, la forma di questa condizione di necessità.

PERCHÉ QUESTA DIFFICOLTÀ? Per la quale non soccorre nemmeno la manchette editoriale che grida «Un viaggio avventuroso e memorabile nel mondo di chi non vede», oppure «Il racconto di una perdita che si fa opportunità di conoscenza» e ancora «La cecità è un buon allenamento alla vita». In buona sostanza è il racconto lungo di come i colori e la vista siano via via scomparsi nella sua vita.

Non il «diario di un cieco – ci soccorre l’autore – bensì il resoconto di una scomparsa progressiva, che cerco di colmare e di esorcizzare e contro la quale sono sempre impegnato a combattere perché non si trasformi in un vuoto soffocante, ma mi conceda, al contrario, spazio, energia e tempo per un corpo a corpo….», per un conflitto per il quale non si fa nemmeno illusioni in partenza, consapevole della ineluttabilità della sua condizione: sarà una disfatta, confessa, ma l’importante è differirla nella sua precipitazione, per rinviare la resa definitiva. Mi sento preso subito da affetto e sollecitazione che, come lui ammonisce, sono i sentimenti di tutti quelli che magari gli sussurrano e consigliano di non scoraggiarsi perché «…ma tu ci vedi meglio di chi vede»; sento però che questa volontà di soccorso non solo è bugiarda ma rischia di stabilire maggiore distanza tra me e lui, rischiando di umiliare entrambi.

C’è dunque un altro metodo per essergli vicino o meglio per trovare la chiave della recensione? Magari essere sferzanti, provocatori e maledetti come quando il poeta e amico Attilio Lolini scrisse di fronte all’assassinio di Pasolini, un epigramma violento contro il mondo: Meglio così Pier Paolo/ che vecchietto scacazzante in giro…/; dunque del tipo crudele ed iper-ideologico: «Meglio così, che non vedi le brutture del mondo?». Ma nei processi corali e collettivi degli avvenimenti – Manconi racconta di come «vede» le partite di calcio attraverso l’interpretazione dei silenzi che preparano una azione di goal – come le guerre o le infamie contro i migranti e gli ultimi della terra è sicuramente rimasto avvertito e cosciente della propria impotenza quanto se non più di un io-vedente e non per questo meno disperato.

NO, IL MODO C’È, ed è il più doloroso ma insieme più oggettivo. Sta nel riconoscere che ci troviamo di fronte ad un racconto privatissimo che travalica, per la forma con cui è scritto, il dato biografico drammatico, per diventare significato di una generazione e di un’epoca.

Una scrittura testimone, asciutta, rigorosa, che chiama a raccolta il lettore, sconvolgendo l’abitudine della «visione» acquisita del mondo fin qui realizzato perché assuma la sua verità, stavolta assoluta; una scrittura abilissima che distanzia con una forza espressiva la propria vita quotidiana «disabile» come se fosse quella di un altro, attraverso un riannodare delle trame di vita che scavano alle origini del suo stato attuale di non vedente. Quasi entrando in una dimensione epifanica e a tratti fumettistica, piegando la memoria in una battaglia di ricordi positivi, dalla figura di «Michele Strogoff» il corriere dello zar accecato dai mongoli, per arrivare a Pregherò la canzone di Celentano, cover di Stand by me scoperta e promossa da Ricky Gianco – nel libro è proprio lui a raccontarlo – e riadattata dal Clan.

UNA SCRITTURA «VISIVA», un action painting, che ci permette di conoscere la metamorfosi dei colori, la battaglia tra il nero e il bianco che nei suoi occhi si è consumata e combattuta. Dalla percezione di Polly, la bambola della figlia, che è misura della sua perdita dei contorni, alla confessione della luccicanza che nelle orbite gli è restata, quella di una opalescenza che sfavilla tante euforie colorate ma ormai nessuna certezza luminosa. Del resto, in esergo del libro, non a caso compare Jorge Luis Borges: «Vivo tra forme luminose e vaghe che ancora non sono tenebre».

Ecco dunque che la distanza da sé diventa concreta esperienza visionaria – l’incertezza dentro gli ingressi, gli androni dagli angoli impervi e duri che ci fanno brancolare per evitarli – e trae continuità dentro i giorni, non senza cadute rovinose, non senza sprofondare nel pozzo nero della sua singolarità piuttosto che nel conforto pubblico che non dà sollievo. Che la scelta quasi fisica e irrinunciabile sia quella di evocare i colori e di tenerli comunque vivi accanto a sé, alla sua consapevolezza, anche attraverso la visione rimasta delle opere di alcuni pittori, è confermato da molti riferimenti, crocevia di sensazioni che vuol sentire sulla pelle, epidermicamente o nell’aria come profumo o come suono e musica – del resto la poesia non ha colore, ma sicuramente misura e sonorità, imparata da adolescente sentendo le edizioni dei dischi di poesia (per me indimenticabile il Canto generale di Neruda letto anche quello da Arnaldo Foà). «Kandinsky – scrive Manconi – sosteneva di poter sentire la voce dei colori come fossero suoni e classificava la sua pittura secondo canoni musicali. E sono notissimi i versi di Arthur Rimbaud: «A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu: vocali…».

POI C’È IL CASO di un grande pittore diventato cieco, Claude Monet, al quale il progressivo deteriorarsi della vista provocò una sensibilità e resa sempre più sfocata delle immagini, fino a trasfigurarne le differenze cromatiche al punto da inventarne di nuove ancora più «vere» ai suoi occhi mentali. Aggiungeremmo Klimt che considerava i colori come «la scoperta della realtà». Che dire poi dell’evocazione dell’uomo primitivo quando l’autore ne immagina la ricerca spasmodica del volti nella scoperta dei metalli? Un richiamo che rammenta una teoria archeologica che vogliamo ricordare: che i pittori delle caverne, autori di affreschi straordinari, siano stati proprio gli uomini primitivi ciechi, abbandonati nel fondo della terra per rito sacrificale o diventati tali al flebile chiarore delle torce di breve durata e soprattutto a causa della predominanza del buio.

Ecco che torna il buio che ci sovrasta, chiave interpretativa del resoconto appassionato di Luigi Manconi. Il suo mondo delle «apocalissi domestiche» – gli oggetti che gli sfuggono di mano, essere urtati per strada senza che nessuno chieda scusa, la routine della voce artificiale di Alexa, l’organizzazione di cassetti memoriali «alla Buffetti» – ci riguarda perché ci obbliga a vedere lo spazio incluso del buio, quasi necessario, noi che abbiamo impresse troppe immagini date sulla retina che ormai ci impediscono di vedere il nuovo che c’è. «Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, ciechi che, pur vedendo, non vedono», scriveva Saramago nel suo romanzo in cui la Cecità è una epidemia: la perdita della luce degli occhi come perdita della solidarietà tra gli umani.

ORA CHE LO SPAZIO UMILE della notte, lo spazio della tregua, è diventato tutto merce e le ultime invenzioni luminarie tendono quasi a distruggerla, la notte, a farle guerra a fini produttivi per un tempo di lavoro illimitato. Ma il buio inchioda alla staticità, alla ferita aperta di non vedere.

Suggerisce e decide allora l’autore di trasformare la sua patologia, «come una grazia di Stato», in una occasione di conoscenza e liberazione, in un movimento minimo ma dolorosissimo – non si tratta qui di cortei o di vertenze – che raccolga e mobiliti tutte le energie, riducendo la rabbia ed elevando la mitezza, per uno scarto di lato «che consenta di avere ancora sorprese nella vita quotidiana», in primo luogo il piacere, la voluttà della parola nuova mai utilizzata, della «scrittura con altri» con la quale consistere: «La lotta e il movimento sono l’esatto contrario della cecità». «Per quanto riguarda il resto – sembra chiosare Luigi Manconi, e l’affermazione davvero ci riguarda – io sono tutto dentro il mio limite».

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