Una lingua sfrontata per il testamento eroicomico di Joyce
Classici ritradotti Inventando storture lessicali in qualche modo mimetiche dell’originale, Fabio Pedone e Enrico Terrinoni affrontano «Finnegans Wake» (Mondadori) con brio ermeneutico
Classici ritradotti Inventando storture lessicali in qualche modo mimetiche dell’originale, Fabio Pedone e Enrico Terrinoni affrontano «Finnegans Wake» (Mondadori) con brio ermeneutico
Nessun’altra opera rivela l’animo di James Joyce meglio dell’ultima: su Finnegans Wake aleggia infatti uno spirito scapigliato e beffardo, sensibile ma ostinato, generoso e al tempo stesso scettico e distruttivo, che suggella come un funerale ogni velleità narrativa, sia essa storica o mitica. Messo in scena da una regia grandiosa e stracciona, il Wake può essere letto come il testamento eroicomico di un artista tormentato ma forte della sua autoironia e della risolutezza aspra comune a tutti coloro che si votano alla libertà individuale, respingendo – sin da giovani – le convenzioni vuote e le paralisi che ne derivano.
Del resto, sebbene corteggiasse l’umanità nel registro intimo della scrittura, Joyce faceva di tutto per risultarle antipatico nella vita quotidiana. La dice lunga quanto accaduto nel luglio 1939 allo scrittore americano William Saroyan: in visita a Parigi e capitato a sua insaputa fra gli scaffali della Shakespeare and Co. – casa editrice resa celebre anche dalla pubblicazione dello scandaloso Ulisse nel ’22 – venne riconosciuto da Sylvia Beach che gli propose di incontrare l’autore del Finnegans Wake, uscito giusto due mesi prima: «Lei lo chiamò, poi io e lui ci parlammo al telefono, o meglio, io dissi il mio nome e Mr Joyce mi rispose che lo pronunciavo male. Gli spiegai allora che si trattava di una concessione alle difficoltà di pronuncia degli americani. Al che, mi propose di andarlo a trovare tre giorni dopo, alle due e trenta del pomeriggio. Non ho mai incontrato Joyce. All’indomani partii per Londra».
Joyce sapeva bene quali corde toccare per irritare il suo prossimo; ma alla fin fine non si negava a nessuno, malgrado poi in molti, e Saroyan fra questi, preferissero non scendere a compromessi con il suo egocentrismo burlone. «Un gusto diverso in materia di scherzi», scrisse George Eliot in Daniel Deronda, «può logorare gli affetti.» Parole che non è chiaro se si potrebbero applicare meglio alla ricezione dell’opera di Joyce o alla sua parabola umana, soprattutto nell’ultimo scorcio della vita: ferito dall’insuccesso di quel work in progress (così chiamava il Wake prima di pubblicarlo) cui aveva dedicato ben diciassette anni, malato e quasi cieco, terrorizzato dalla guerra e distrutto dai problemi di salute della figlia e dalle difficoltà fra il figlio e la nuora, Joyce avrebbe finito per arrendersi e chiudere definitivamente gli occhi all’inizio del ’41.
D’altro canto è proprio durante le lunghe giornate passate al buio, spesso in convalescenza per le numerose operazioni agli occhi, che egli concepì il suo «libro della notte». E se già l’Ulisse tematizza l’«ineluttabile modalità del visibile … il pensiero attraverso i miei occhi», nel Wake sono forzate oltre ogni limite le corrispondenze fra esperienza sensibile e rappresentazione, fra la percezione e la sua resa attraverso il medium letterario.
Forzature che danno luogo a un anti-romanzo, un enorme bisticcio babelico che ospita quaranta idiomi, spesso distorti da innumerevoli manipolazioni linguistiche e su cui si innerva, miracolosamente, una trama esile, quasi irriconoscibile, eppure allegra, coinvolgente e preziosa quanto una musica familiare. Non a caso Finnegan’s Wake è in primo luogo il titolo di una ballata irlandese dove si racconta di un ubriacone che, creduto morto, si risveglia quando durante la chiassosa veglia del suo funerale qualcuno gli versa addosso del whisky. Ma con Joyce, ogni lettura univoca è bandita fin dal titolo, dove la caduta dell’accento del genitivo sassone attiva svariate possibilità interpretative. E lo stesso vale per tutto il romanzo. Un narratore identificabile nell’eroe mitico Finn, ma anche in H.C.E – acronimo per mille soggetti, compresi «Here Comes Everybody» e «Humphrey Chimpden Earwicker», gestore di un pub di Dublino – tesse «in sogno e ciondolando sonnecchiante» le mille e una trama attorno a una donna/fiume, ALP, in cui si può di volta in volta riconoscere Elena, l’Irlanda, Anna Livia Plurabella o l’Anna Liffey, il fiume di Dublino, peraltro riflesso nei nomi degli altri quattrocento fiumi citati nel testo. Con indole lisergica il discorso onirico innesta le vicende della famiglia Earwicker, soprattutto dei gemelli complementari Shaun e Shem, su una serie di digressioni che forti di una aspirazione universalista addensano le religioni, le mitologie e le storie più disparate.
Per moltiplicarne gli intrecci policromatici, Joyce abolisce i vincoli ortografici e scavalca ogni norma sintattica e grammaticale, procedendo alla distorsione sistematica dei codici narratologici e linguistici secondo tecniche che già erano comparse episodicamente in Lawrence Sterne, e in Lewis Carroll, nell’Ars Punica e nella corrispondenza in Latin Anglicus (il latino letto in inglese) fra Jonathan Swift e Thomas Sheridan – di cui nel Wake è non a caso citato il curatore, Elrington Ball – e ancora, nelle Melodie Irlandesi di Moore, nelle Canzoni di Perry French, nelle pubblicità trasmesse alla radio e, soprattutto, nella ricchissima tradizione irlandese dei limerick e dei jingle, dei jest book e delle nursery rhyme, degli indovinelli e delle barzellette.
Da questo assembramento di voci che «tutte coriferavano riecoreggiando», si erge una magnifica «letamebre» di pun, criptogrammi e plagi, uno «stolentelling», secondo Joyce, di cui, se non fosse per le indagini filologiche di critici e traduttori, tanto il lettore medio che quello colto capirebbero assai poco. È in qualche modo curioso che proprio il Wake sia considerato – come del resto riferì anche il suo autore – intraducibile. Certo, sarà riguardato da una traduzione speciale, come ebbe a dire Declan Kiberd, perché non è affatto chiaro in quale lingua sia scritto e in che tipo di lingua sia legittimo riprodurlo. Ma esattamente per questo motivo e per gli evidenti limiti esegetici imposti dal testo, una traduzione sembra tanto più necessaria, se si vuole tentare di portare alla luce esperienze di lettura e percorsi di senso che, lasciati nella versione originale,resterebbero oscuri.
È dunque con gratitudine che la platea dei joyciani, e non solo, applaude in questi giorni la pubblicazione negli Oscar Moderni Mondadori del Libro Terzo, Capitoli 1 e 2, del Finnegans Wake. I sedicenti «straduttori», Enrico Terrinoni e Fabio Pedone, riprendono così l’impresa avviata da Luigi Schenoni, che licenziò la traduzione dei primi due libri, usciti in quattro volumi, sempre presso Mondadori, fra il 1982 e il 2011. A un’attenta analisi del testo pubblicato in questi giorni, si direbbe però che, pur ispirandosi all’eccelso precedente di Schenoni, i due traduttori abbiano piuttosto raccolto il testimone dallo stesso Joyce.
Aiutato dall’amico Nino Frank, l’autore del Wake ne redasse un’avvincente traduzione italiana, limitatamente al passo conosciuto sotto il nome di Anna Livia Plurabelle. In questa versione, che il teorico Michaël Oustinoff avrebbe chiamato «auto-traduction recréatrice», i due si divertirono a inventare storture linguistiche in qualche modo corrispondenti alle originali e, anziché arginare l’inevitabile dispersione semantica potenzialmente derivata dalla riproduzione delle ambiguità, sembrarono entusiasmarsi per le infinite opzioni ermeneutiche e le associazioni incontrollate messe in gioco dalla traduzione. Lo stesso accade nella ricreazione di Terrinoni e Pedone attraverso la compenetrazione e la saldatura delle parole (vilingue, parolaido, proclamore, fobiagrafia), gli anagrammi (foldisalsi per «soldi falsi»), l’inversione delle funzioni grammaticali («disgustistimo postumista»), l’alternanza vocalica (hick, heck, hock), gli acronimi (Ava Lissia Plustivala, Homelie Concordanti d’Eusebio), le onomatopee (Ciucciuc a gorgheggiare, Gnahem, che è sia «gnam» sia «amen», aggiuaggiuaggiuducacaggiù a indicare l’affogamento) e persino giocando con le ambiguità che il tessuto fonico dell’italiano può intercettare presso orecchi inglesi, francesi, tedeschi, ungheresi, e così via (come con «feugtiva stagione», a echeggiare il tedesco Feuchtigkeit e il danese fugtig, che alludono all’umidità, nonché il francese feu, fuoco).
Il tutto, naturalmente, sviluppando una rete altrettanto fitta di allusioni storiche e letterarie e sollecitando quella molteplicità di livelli di lettura che è caratteristica fondamentale del Wake. Ma il romanzo così tradotto non è soltanto stupefacente, plurale e tutto da finire, in perfetto stile joyciano. Nella nuova veste e grazie al ricco apparato critico, sembra venga eliminato anche un equivoco indotto da alcuni celebri estimatori del passato, talmente intimoriti dal Wake da riuscirne a parlare solo nei termini mirabolanti e iperbolici del mostruoso, del demoniaco e, comunque, dell’eccezionalità. Toni dovuti, molto probabilmente, all’ansia imbarazzata di giustificare il fascino per un romanzo dichiaratamente per pochi. Ma se nel giovane Umberto Eco l’intenzione era per l’appunto allettare una platea convinta di aver a che fare con un’opera illeggibile, continuare oggi lungo questa strada si risolverebbe in inerzia e contraddirebbe quella prospettiva «democratica» adottata da Terrinoni insieme a Carlo Bigazzi nella traduzione dell’Ulisse, e riprodotta, con Fabio Pedone in quest’ultima fatica. Non dimentichiamoci, infatti, che la prima e fondamentale magnificazione retorica di Joyce si risolse, in realtà, nell’adozione mai aristocratica e mai nostalgica, di un profilo decisamente basso, orizzontale e quotidiano, anche quando il registro era quello simbolico.
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