Una leggenda nera da sfatare ma non troppo
Il racconto della Repubblica «Eugenio Cefis. Una storia italiana di potere e misteri» di Paolo Morando, pubblicato da Laterza. Dati reali alla mano, l’autore smantella parte delle «favole», soprattutto la «pasolineide»
Il racconto della Repubblica «Eugenio Cefis. Una storia italiana di potere e misteri» di Paolo Morando, pubblicato da Laterza. Dati reali alla mano, l’autore smantella parte delle «favole», soprattutto la «pasolineide»
L’uomo sembrava fatto apposta per suscitare sospetti anche nei meno inclini a intravedere trame oscure o immaginare pupari onnipotenti. Eugenio Cefis odiava le luci della ribalta. Il protagonista di alcuni degli affari più discutibili della storia economica italiana, come la scalata della privata Montedison grazie a fondi fuori bilancio della pubblica Eni, coltivava una gelosia per la propria immagine sconfinante nella nevrosi. Voci e leggende moltiplicate dall’improvvisa e inspiegata uscita di scena nel ’77, rinfocolate decenni più tardi dalla ormai acclarata alta probabilità che la morte di Mattei sia stata un omicidio e poi portate all’apice dalla scoperta, con un decennio di ritardo sull’uscita del romanzo postumo di Pasolini Petrolio, che proprio Cefis ne era l’appena camuffato protagonista.
COSÌ, AGLI ELEMENTI REALI che già non scarseggiavano nel costruire la leggenda nera di Cefis si sono aggiunti quelli derivanti dalla fantasia e dalla passione per i misteri che in Italia spopolano sempre. Il presidente dell’Eni e poi di Montedison è diventato il mandante dell’omicidio Mattei, il vero capo della immancabile P2, l’uomo degli americani a Roma, la mano assassina dietro l’omicidio di Pier Paolo Pasolini e persino il responsabile della morte di Rino Gaetano.
Ma chi dovesse aprire il bel libro che Paolo Morando, già autore di tre ottimi libri tra cui Prima di piazza Fontana sulla genesi dell’attentato del 12 dicembre 1969 dedica al campione della «razza padrona» sperando di trovarci ghiotte conferme e saporiti supporti alla cupa leggenda resterebbe deluso. Eugenio Cefis. Una storia italiana di potere e misteri (Laterza, pp. 392, euro 19.00) smantella, dati reali alla mano, buona parte di quelle favole: in particolare proprio la «pasolineide» che mette in relazione il libro a cui stava lavorando PPP con la sua fine all’idroscalo di Roma.
TUTTA LA PRIMA PARTE del volume, in effetti, si occupa di verificare e spesso smentire le tante altre costruzioni fantastiche montate intorno all’ex capo partigiano bianco della val d’Ossola. Non che fosse questa l’intenzione inziale dell’autore: Morando non ha scelto di trattare un capitolo tanto importante quanto ancora in ombra della storia repubblicana con l’obiettivo di sgombrare il campo da fandonie e dicerie. Al contrario, confessa lui stesso, si proponeva di addentrarsi in quel continente misterioso ricco di intrighi sanguinosi e turpi disegni segreti. Sono stati gli elementi che ha raccolto nella sua ricerca a fargli cambiare idea, costringendolo a trasformare il suo libro in un modello di giornalismo anti-dietrologico, quel genere prezioso e raro in Italia che consiste nel riportare le cose nelle loro reali e fondate dimensioni.
E che a volte regala anche frutti insperati, come la vera e propria scoperta sulla morte di Mattei con la quale Morando conclude il suo libro e che potrebbe rivelarsi essenziale per capire la tragedia di Buscapè.
Spogliare Cefis degli immaginari panni del diabolico genio del male non significa affermare che l’uomo fosse una figura limpida né che sul suo conto non ci sia nulla da scoprire. Le zone d’ombra sovrabbondano: dai rapporti più che plausibili con i servizi segreti americani sin dai tempi della guerra partigiana all’ambiguo ruolo di braccio destro di Mattei, però sempre in veste di collaboratore esterno, all’Eni.
DALLA SPREGIUDICATA SCALATA a Montedison nel tentativo di imporsi come imperatore della chimica italiana, a cavallo tra pubblico e privato, al tentativo fallito di imprimere una torsione non certo fascista ma certamente autoritaria alla democrazia italiana puntando su Amintore Fanfani e sul bizzarro progetto «cinque per cinque», perfettamente ricapitolato e ricostruito in questo libro. Dalla diffusione di veleni in nome della plastica e del profitto alla guerra con Gianni Agnelli per il controllo dell’informazione.
Dalla meticolosa ricostruzione di Morando Cefis emerge come un imprenditore intelligente, spregiudicato, certo non privo di aspetti loschi, impegnato in una guerra con l’eterno ed eternamente esclusivo «salotto buono» del capitalismo italiano dalla quale uscirà sconfitto. Il rapporto con la politica, al cui controllo Cefis cercherà sempre di sottrarsi sin dai tempi della val d’Ossola, appare molto diverso dalle fantasie che lo vorrebbero burattinaio in grado di manovrare a piacimento i pupi del Palazzo. Non era questa la politica nella Prima Repubblica. Al contrario, quel che colpisce nel quadro d’insieme che tratteggia Morando è la forza, oggi sconosciuta, di una politica che mediava sì, però mantenendo sempre saldo lo scettro.
Con tutta la sua scaltrezza, l’ambizione estrema del suo progetto e il grande potere che ha senza dubbio esercitato il Cefis che ritroviamo in queste pagine è una figura a modo suo grigiastra: diffidente, legato per sempre ai suoi compagni ex partigiani della val d’Ossola perché solo di loro un po’ si fidava, ossessionato dalla segretezza, quasi vittima lui stesso di un’immagine esorbitante rispetto alle sue reali dimensioni.
SE QUESTO LIBRO fosse un film la scena madre sarebbe l’incontro con chi deteneva davvero un potere quasi sovrano in quegli anni, l’Enrico Cuccia che accoglie il titano della chimica con un secco «Sono deluso. Mi aspettavo che Lei facesse il golpe» e poi gli nega il finanziamento che terrebbe a galla Montedison perché lo considera «un perdente».
IN ULTIMA ANALISI, il quadro di Morando è davvero quello di un perdente, però non tanto peggiore dei vincenti. Ma il protagonista è qui meno importante del disegno corale che lo circonda. Il libro di Morando è soprattutto un libro sulle strutture del potere e dei poteri nell’Italia degli anni ’60 e ’70, prima che la morte di Moro aprisse la fase agonizzante della prima Repubblica.
Seguendo questa ricostruzione è impossibile non ripensare al tentativo del Moro prigioniero in via Montalcini di spiegare ai brigatisti che lo interrogavano quanto la loro visione verticistica, efficiente e tecnocratica fosse distante dalla realtà slabbrata e caotica, spesso casuale, del potere in Italia. Quella realtà, il libro di Morando la mette in scena tutta.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento