Emendamenti alla manovra? Non ci saranno, ha auspicato il vicepremier leghista Matteo Salvini. Per fare in fretta, non perdere tempo. Che piglio decisionale, questi ministri-manager! Ma poi, chiediamocelo, per andare dove? Lo ha spiegato ieri il vicepremier Antonio Tajani (Forza Italia): «Per rassicurare i mercati» ha detto. Parla l’ala sedicente «liberale» della coalizione di maggioranza: la democrazia parlamentare, e la politica economica, del governo di estrema destra è condizionata dal prossimo giudizio sul debito delle agenzie di rating: Standard & Poor’s Global il 20 ottobre, Dbrs il 27, Fitch il 10 novembre, Moody’s venerdì 17 novembre. Il giudizio che fa «paura» allo stesso ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti. Il fantasma dei «mercati», più reale degli spettri, in realtà, è un alibi per il governo. Così si deresponsabilizza e può giustificare le sue evidenti difficoltà evocando uno stato di emergenza. È quello che ha fatto lo stesso Tajani che ha evocato il «momento difficile con inflazione ancora forte, due guerre. Dobbiamo fare in temi rapidi il lavoro di un parlamento, e quindi approvare la manovra senza troppe modifiche».

BISOGNA però fare attenzione alle sottigliezze del politicismo italico: «Senza troppe modifiche» significa che gli emendamenti alla manovra comunque ci saranno. Una traccia in questo senso l’ha fornita Raffaele Nevi di Forza Italia che ha parlato di «emendamenti migliorativi senza cambiare la situazione dei saldi o delle poste fondamentali. Quando leggeremo il testo ci ragioneremo». È uno spiraglio che si apre nelle file della maggioranza che, fino a ieri, non riusciva a credere che il proprio governo avesse chiuso le porte alla corsa alla diligenza di fino anno. O forse a fine novembre. Sembra che Meloni voglia approvare allora una «manovra maldestra e inadeguata» (Sbilanciamoci). Un record. Ma l’impressione è che il governo si sia creato un problema da solo.

UN ALTRO ASPETTO dell’attuale commissariamento della politica economica è emerso all’incontro tra i ministri dell’economia e delle finanze (Ecofin). In Lussemburgo è continuato lo stallo delle trattative sulle bozze del nuovo patto di stabilità, ma una cosa era chiara ieri: l’accordo ci sarà entro la fine dell’anno solo se ci sarà un’intesa tra Francia e Germania. Lo «sanno tutti» ha osservato il ministro dell’Economia francese Bruno Le Maire. Sta di fatto che i due pilastri dell’Ancien Régime neoliberale europeo stentano a trovare un accordo.

LA MINISTRA dell’Economia Nadia Calviño, per la presidenza spagnola di turno dell’Unione, ha ricordato il problema principale: come avere, da una parte «le salvaguardie appropriate per garantire una sostenibile riduzione di debito e deficit» e, dall’altra parte, «come assicurare che questo sia compatibile con gli investimenti necessari ad aumentare la produttività e la crescita potenziale». Detto altrimenti: nel rapporto tra deficit-debito-crescita (i famigerati parametri «stupidi» del 3% e del 60%) vanno calcolati anche gli investimenti? E come? E poi quali? C’è la spesa per transizione ecologica? Quella per l’industria, per le infrastrutture, per la sanità? O c’è anche quella per le armi?

NON È CHIARO, ma è questa la richiesta italiana, rinnovata ieri all’Ecofin dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti. La posizione del suo governo, e molte delle carte che potrà giocarsi nella manovra del prossimo anno, dipende dalle trattative tra altri. Vecchia storia, anche questa. E, soprattutto, dalla speranza che non passi una variante peggiorativa della già problematica regola del debito stabilita dalla Commissione Europea a proposito del rientro del debito pubblico. Secondo una simulazione dell’Istituto Bruegel la proposta della commissione imporrebbe 18 miliardi di euro in avanzi di bilancio per 4 anni. Ecco il fantasma che, in realtà, il governo vede arrivare. Le politiche restrittive attuali, e quelle che verranno, stanno creando le premesse per una nuova crisi europea. Questo governo non intende, né ha la forza, di contestarle. Nemmeno l’opposizione si pone il problema. Non è un buon segno.

ED È COSÌ che il governo ha anticipato i tagli che verranno con la nuova austerità. Quasi 10 miliardi in tre anni ai ministeri. Lo si legge nel Documento programmatico di bilancio (Dpb arrivato sul tavolo della Commissione Ue. C’è tempo fino a novembre. Ai «mercati» si aggiungerà il vero responso dei custodi dei conti di Bruxelles. E forse non basteranno gli emendamenti «migliorativi».