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Una ipotesi molto convincente sul mitico Fanum Voltumnae

Una ipotesi molto convincente sul mitico Fanum VoltumnaeGiovanni Feo

Personaggi La visione alternativa sulla genesi della civiltà latina da due libri di Giovanni Feo

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 27 luglio 2019

La visione alternativa sulla genesi della civiltà latina, che è l’oggetto di questo breve articolo, ha come base due libri scritti da Giovanni Feo, il primo del 2001 dal titolo Prima degli etruschi e il secondo Il tempio di Voltumna del 2009, entrambi editi da Stampa Alternativa. Inoltre due nuovi fatti di recente scoperta lasciano spazio ad alcune ipotesi alternative formulate dallo stesso Giovanni in Prima degli Etruschi. Il primo, non menzionato da Giovanni ma da me introdotto, è la scoperta de «L’uomo di Atapuerca» (Spagna), lontano antenato dei Neanderthal, specie del genere homo che ora si sa aver contribuito in una certa percentuale alla conformazione del genoma dell’uomo contemporaneo; il suo Dna nucleare è stato datato a 450.000 anni or sono e fu recuperato per la prima volta da un dente ed un femore ritrovati appunto ad Atapuerca.
Quanto sopra implica che in epoca molto remota alcune specie del nostro genere seguirono probabilmente una rotta dai luoghi africani di origine fino allo stretto di Gibilterra, che attraversarono per arrivare in Europa. Sia o meno questa la rotta realmente seguita dall’uomo di Neanderthal, il ritrovamento di Atapuerca indica che il Mediterraneo occidentale fu probabilmente uno dei più antichi scenari di attività umana in Europa. In questo senso Richard Leakey ci indica che la fredda costa europea del Mediterraneo di 60.000 anni fa era abitata da piccole società di Homo Sapiens, cacciatori di renne che oggi si possono ritrovare solo nei paesi artici.
Il secondo fatto, stavolta usato da Giovanni come parte della sua argomentazione in Prima degli Etruschi a pag.15 è una «…recente indagine svolta nel deserto di Tassili (Sahara algerino)…. ». Quest’area era anticamente un’area piovosa e fertile, che circa 7.000 anni fa presentava uno sviluppo agricolo che potrebbe essere stato indipendente da quello più noto della «Mezzaluna fertile». La desertificazione dell’area di Tassili avrebbe prodotto la migrazione della popolazione in direzione del Mediterraneo orientale e di questa popolazione, conosciuta come popolo del mare, avrebbero fatto parte i Sardi, i Baschi, ed i Tirreno-Etruschi.
Seguendo quindi il cammino che passa dalla mitologia alla storia, simile a quello che portò Heinrich Schliemann all’identificazione e alla scoperta di Troia, Giovanni segnala una serie di casi nella mitologia antica che puntano verso l’esistenza, nell’estremo occidentale del Mediterraneo, di una cultura avanzata in relazione al Monte Atlas, le Colonne d’Ercole, il giardino delle Esperidi etc… Giovanni attribuisce a questa cultura una radice eminentemente agricola associata al culto femminile della Grande Dea della Terra e del Cielo, e usando il mito delle Fatiche di Ercole assume l’esistenza di un’ondata di culture guerriere e patriarcali provenienti dall’Oriente, che portò alla dominazione di quella matriarcale in tutto il periodo dell’età del bronzo, dal 2.000 a.C. al 1.000 a.C., ponendo la caduta di Troia, avvenuta nel 1.180 a.C., come punto apicale di questo processo di dominazione.
Secondo l’ipotesi di Giovanni solo gli etruschi portarono avanti in Europa una cultura matrilineare, che chiuse il proprio ciclo con la rapida espansione di Roma: il dio padre Giove prese il posto di ogni forma di culto e cultura femminile. A pagina 14 Giovanni scrive: «L’atto finale venne eseguito dal primo vescovo di Roma, nel IV secolo d.C., quando furono chiusi i grandi luoghi di culto pagano ancora gestiti dai vari sacerdoti. Eleusi e gli altri templi misterici ed oracolari vennero chiusi insieme agli altri centri sacri in Grecia, in Oriente, in Italia e nel resto della terra cristianizzata».
In questo modo Giovanni suggerisce un grande e continuo processo culturale che inizierebbe circa 7.000 anni or sono con la rivoluzione agricola, la successiva essicazione di quest’area, il conseguente spostamento di popolazioni verso oriente, attraverso il Mediterraneo ed infine l’arrivo in Italia. Questa migrazione sarebbe legata al culto di una grande Dea Madre, ad un regime matriarcale e allo sviluppo in Italia della civiltà etrusca avvenuto attorno al primo millennio prima di Cristo, arrivando quindi alla dissoluzione di questa civiltà con l’arrivo della cultura romana agli inizi dell’era cristiana. L’epicentro dell’ultima parte di questo processo sarebbe lo spazio centrale del mondo etrusco compreso nell’area compresa tra l’Arno e il Tevere.
D’altra parte il materiale del libro Il tempio di Voltumna viene presentato con una meticolosa e sistematica indagine sulla sconosciuta ubicazione del Fanum Voltumnae, il leggendario santuario nazionale dei dodici popoli etruschi menzionato nella letteratura antica come il più importante centro di pellegrinaggio e culto nazionale etrusco. Secondo Giovanni il mancato ritrovamento del Fanum etrusco è dovuto al fatto che non si sapeva esattamente cosa si stesse cercando, poiché la traduzione del nome Fanum Voltumnae era stata orientata verso un edificio come un tempio o un santuario ristretto. Avendo una vasta conoscenza della cultura etrusca, Giovanni stabilisce l’importanza che per detta civiltà aveva l’ambiente naturale al fine di determinarne gli aspetti sacri, assumendo che un centro di così grande importanza doveva includere tratti geografici degni di nota, sia per l’ubicazione che per la presenza di fattori naturali rilevanti. Il luogo in questione doveva anche contare su connotazioni di sacralità più antica, data la tendenza di sovrapporre i nuovi centri sacri ad altri di epoca più remota. Doveva altresì concordare con una antica scienza empirica che lui stesso chiamava Agrimensura, una geografia sacra per la quale erano fondamentali i seguenti fattori: i confini come luoghi di convergenza tra gruppi, i boschi come santuari di espressione prolifica di una dea madre della terra, i laghi come centri generatori di vitalità e abitazione di divinità acquatiche oltre che luoghi di incontro tra il mondo superiore ed inferiore, le grotte e gli scavi sotterranei oscuri come luoghi di generazione della vita nell’intimità del ventre di una dea madre terrestre.
Giovanni associa quindi tutto ciò alla presenza più o meno generalizzata nelle società antiche dell’omphalos, centro del mondo o ombelico universale, ove convergono i quattro fattori più significativi del territorio con un’organizzazione diversificata in dodici componenti etniche. Ne sono esempi di rilievo «l’Impero di Mezzo» in Cina, «l’Impero di Meadth» in Irlanda, il «Tawantinsuyo» in Perù o le dodici tribù di Israele. Secondo Giovanni l’ubicazione del Fanum Voltumnae potrebbe essere rischiarata solo in presenza di un contesto simile a quello descritto. A seguito di questo attento e profuso approccio, Giovanni afferma che la maggior parte di queste caratteristiche, a cominciare dalla loro sacralità già riconosciuta dalla cultura rinaldoniana si trovano simultaneamente presenti nella conca vulcanica del lago di Bolsena, concludendo che questo spazio riunisce le condizioni più adeguate per far sì che venga considerato il santuario più importante e perduto della civiltà etrusca, vale a dire un complesso spazio sacro dedicato al culto della dea femminile Voltumnae e luogo di celebrazione delle grandi riunioni nazionali della dodecapoli etrusca. Il disperso Fanum Voltumnae.
Giovanni menziona inoltre la presenza di società agricole e pertanto tribali nell’area occidentale del Mediterraneo, datandola a circa 7.000 anni fa. Non importa se questa cultura fosse autoctona o proveniente dalla «Mezzaluna fertile» che la sviluppò 10.000 anni fa, l’importante è che fosse già presente e che, come lui stesso suggerisce, i migranti in questo spazio potessero essere i portatori sulle coste italiane della rivoluzione sopra citata. Ad ogni modo la cultura rinaldoniana, databile attorno al 2.000 a.C. sembra corrispondere a uno stadio avanzato di sviluppo della tribù, in relazione alla sua centralità e al tipo di società noto come «con autorità suprema». Molto frequentemente la centralizzazione delle tribù è associata allo sviluppo o all’assimilazione della metallurgia.
La Lucumonia etrusca suggerisce molto fortemente la condizione di «guida da autorità suprema», fase superiore dello sviluppo delle tribù e preludio alla formazione dello stato, caratteristica che lascia spazio alla civiltà propriamente detta. Gli elementi descritti da Giovanni relativi alla Dodecapoli etrusca e la complessità del suo centro, il Fanum Voltumnae, sembrano non solo corrispondenti ad una confederazione di gruppi a guida suprema, ma anche alla configurazione di uno stato e pertanto ad una civiltà in piena regola.
Per quanto riguarda le origini della società italiana, che è il tema più generale ed importante proposto da Giovanni Feo, credo che il suo lavoro rappresenti un apporto fondamentale. Con il materiale empirico offerto si può considerare il processo formativo della civiltà etrusca come il fattore fondante dell’origine della civiltà italiana. Se si vuole considerare il fattore ellenico come altrettanto importante, la confluenza di questi due versanti culturali, etrusca ed ellenica, sarebbe all’origine della civiltà romana.
Questo approccio alternativo permetterebbe inoltre di risolvere il seguente problema. Se la civiltà ellenica era la principale antecedente di quella italiana perché il linguaggio predominante nella fase imperiale fu il latino e non il greco, come nel resto dello spazio ellenico? Se invece l’antecedente più importante fu l’etrusco perché questo linguaggio non divenne la lingua imperiale? È cosa nota nella storia dell’evoluzione delle culture che un linguaggio si impone su un altro quando è portatore di elementi culturali più efficienti del suo rivale, o anche quando attraverso di esso si producono importanti fenomeni di trasformazione sociale. Riavvalorare l’importanza della civiltà etrusca che vado suggerendo, seguendo il lavoro di Giovanni Feo, permette di proporre una soluzione al problema posto. Può essere ragionevole considerare che il latino divenne il linguaggio imperiale perché le popolazioni che lo parlarono offrirono un circuito dialogico neutro nel quale si poterono fondere ed integrare simultaneamente i fattori più importanti della civiltà etrusca ed ellenica, portatrici di elementi culturali equivalenti.

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