Cultura

L’infelice vita quotidiana

L’infelice vita quotidiana

Scaffale «Il figlio del boss. Una storia vera» di Pasquale Mauri, con la giornalista e scrittrice Graziella Durante, per Cairo edizioni

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 8 marzo 2019

Non è Gomorra. Non ci sono soldati che aspirano a sostituire i boss facendogli la pelle, non ci sono diagrammi del «Sistema» svelati. Di agguati mortali ce n’è uno soltanto: quello in cui viene ammazzato Vincenzo Mauri, temuto boss di Sant’Anastasia nel vesuviano, padre di Pasquale Mauri, autore con la giornalista e scrittrice Graziella Durante di Il figlio del boss. Una storia vera (Cairo, pp.206, euro 14).

QUELLA DI MAURI è in effetti una storia vera che si legge come un romanzo, per merito della penna agile della giornalista ma anche perché la vicenda è romanzesca in sé. Racconta la Camorra vista dal suo lato della barricata, dall’interno, in una dimensione di quotidianeità registrata da un uomo che, pur non essendo mai stato coinvolto attivamente nel sistema camorrista, ne è stato condizionato in tutto e per tutto sin da una infelice infanzia.
Il 28 dicembre 2004 è proprio lui, Pasquale, ad accompagnare il padre al circolo dove Vincenzo «Settevite», soprannome dovuto all’essere scampato nei suoi 58 anni di vita a ferite e agguati in eccedenza, passa i pomeriggi giocando a tressette. Pasquale viene richiamato di corsa poco dopo: quando arriva al circolo il padre è già morto. Stavolta le sette vite non sono bastate e ci ha rimesso la pelle anche un poveraccio, colpevole solo di essere seduto al tavolo da gioco sbagliato.
Il libro di Pasquale Mauri inizia con questa sanguinosa esplosione di violenza. Non ce ne saranno altre e tuttavia l’intera storia di questo ragazzo che il padre ha deciso non debba seguire le sue orme, e che per natura e carattere non le avrebbe affatto seguite volentieri, è segnata da una violenza continua, onnipresente e sorda. È una violenza che non deflagra ma diventa condizione esistenziale, tanto permanente da non essere quasi più percepita, invisibile, impalpabile e avvolgente come l’aria.

Don Vincenzo entra ed esce di prigione. Per Pasquale viaggiare significa spostarsi da una casa circondariale all’altra insieme alla nonna, unico affetto in un’infanzia spoglia. Il boss si è fatto largo con le maniere spicce ed è stato ripagato con la stessa moneta.

LO HANNO FERITO più volte gravemente, così l’ombra della morte, di una vendetta trasversale che potrebbe colpire oltre a lui anche chi gli si trova casualmente vicino, accompagna Pasquale per tutta l’infanzia e la prima giovinezza. Il padre lo ha protetto da una vita da camorrista, in compenso lo ha condannato a una galera di lusso. Può uscire solo in alcuni orari pomeridiani. Anche quando cresce, pochi hanno il coraggio di frequentarlo sfidando il rischio di una pallottola vagante.
Il peggio però è la situazione di isolamento e deserto emotivo che circonda questo figlio di un camorrista estraneo tanto al mondo del padre quanto a quello «normale».
Vincenzo è un padre-padrone incapace di dimostrare affetto. Geloso e possessivo, quando si è lasciato con la madre di Pasquale le ha impedito di incontrare il figlio, che la crede morta. Pasquale è ancora quasi un bimbo quando scopre che la donna è viva ed è tornata nella sua Inghilterra. Ritrovarla diventa un’ossessione che non lo abbandonerà più e lo spingerà a sfidare il padre e le sue tiranniche leggi. La ricerca quasi ossessiva di questa madre sconosciuta, che col mondo di Vincenzo e della Camorra non ha nulla in comune, nasconde e veicola l’inseguimento disperato di quella parte di se stesso che in Pasquale è sepolta e di quella vita emotiva che gli è stata negata.
Il figlio del boss è una storia personale e intima: il racconto di un salvataggio che non era affatto scontato in partenza e che Pasquale Mauri si è dovuto conquistare lottando.

MA NARRA LO STESSO, più di tante inchieste-fotocopia, la realtà della Camorra: la sua cultura, spesso condivisa tacitamente per paura o per complicità anche dal mondo che camorrista non è, la sua «normalità» quotidiana, i riflessi devastanti che ha sulla vita di chi per sorte di quel mondo fa comunque parte, pur senza impugnare la pistola.
Il grande merito di questo libro è stracciare, senza affidarsi all’abituale retorica, il velo di mitologia bugiarda che troppo spesso ammanta la criminalità organizzata mettendone a nudo la verità: una tremenda aridità.

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