Tutte le pratiche disciplinari intente alla costruzione e alla cura di sé sarebbero basate sull’assimilazione senza residui di ciò che possiamo fare in ciò che vogliamo fare e sulla sublimazione di ciò che vogliamo in ciò che immaginiamo. Volere, fino a ipnotizzare la stessa volontà, portare questa a non distinguersi dall’immaginazione, per rendersi simultaneamente attori e spettatori del controllo di sé. Questo il principale assunto critico che emerge dal libro di Laurent de Sutter, Per farla finita con se stessi. Antimanuale di crescita personale (traduzione di Marco Carassai, Tlon, pp. 156, euro 16). Secondo de Sutter tutte le discipline concepiscono il sé come un’essenza immune al divenire e alla trasformazione. Da questo punto di vista, l’ontologia – disciplina che studia i tratti permanenti e essenziali dell’essere – non sarebbe altro che un derivato deteriore di un’immaginazione disciplinante. Perciò, essere se stessi sarebbe questione di autosuggestione, come rimproverava la psicoanalisi a Émile Coué, autore nel 1922 del libro di successo La padronanza di sé.

SECONDO DE SUTTER, già molto prima di Coué, esercitarsi incessantemente a essere se stessi significava immaginarsi e rappresentarsi come dotati di una componente essenziale e stabile: «non c’è differenza tra la morale antica cara a Foucault, il pensiero del self sviluppato da Locke e gli esercizi di crescita personale di cui Coué fu uno dei pionieri: tutti non hanno mai avuto altro obiettivo che la concentrazione dell’individuo all’interno dei limiti del soggetto». In altre parole, il sé non sarebbe altro che un’identità personale che si stabilisce per convenzione, analogamente a come si stabilisce una persona giuridica. Tuttavia, se è vero proprio ciò che sottolinea de Sutter, e cioè che il pròsopon greco, da cui in parte deriva anche la persona latina, non è soltanto una maschera coprente, ma anche il volto esterno che può assumere forme diverse in ragione del contesto in cui viene a trovarsi; se è vero cioè che non vi è un’essenza identificante che sta sotto la maschera ma soltanto la pura esteriorità della stessa maschera, allora vuol dire che permangono processi di soggettivazione, cioè di configurazione in persona dell’essere umano, a seconda della situazione.

ARRIVARE all’assolutizzazione del farla finita con il soggetto, come intende de Sutter, rischia di comportare anche la liquidazione dei processi di soggettivazione. Quei processi che ovviamente hanno a che fare con il soggetto, ma non coincidono completamente con esso. Far coincidere soggetto e soggettivazione comporta il rischio di sottrarre all’essere umano la possibilità di fare esperienza dei processi attraverso i quali lo stesso essere umano assume forme a seconda del contesto nel quale è chiamato a interagire. Questo rischio è forte soprattutto oggi che abbiamo sempre più agenzie che forniscono dispositivi di costruzione del soggetto che escludono a priori la partecipazione critica dell’individuo. Dispositivi che forniscono soggettività anche più controllanti e essenzialiste delle vecchie discipline della cura di sé. Anche la questione della decostruzione del soggetto è stata negli ultimi decenni assimilata e utilizzata dalla religione del capitalismo che l’ha risolta in pratiche del sé che ci vengono offerte surrettiziamente, perché incorporate negli stessi prodotti che acquistiamo e consumiamo, nelle stesse piattaforme che utilizziamo e dalle quali siamo utilizzati. Pratiche che vogliono far sembrare di non predisporre, nell’atto del consumo e dell’adesione, dispositivi disciplinanti e fornitori di soggettività e che tendono a ridurre i processi di soggettivazione in mera soggezione.

ANCHE LACAN, che de Sutter considera nel suo discorso, pur sostenendo che non siamo un soggetto granitico e unico, non per questo liquida la questione del processo di soggettivazione. Il famoso assunto lacaniano secondo il quale «c’è dell’Uno», non è tanto una formula dell’«impersonale», come vuole de Sutter, quanto una formulazione al «partitivo» o, meglio, al «partecipativo».
Nel suo articolarsi come critica del soggetto, l’interpretazione «impersonale» di questo detto di Lacan rende manifesto sempre più l’effetto collaterale di ridurre l’intero processo di soggettivazione in assoggettamento, di cui gli identitarismi politici, socio-economici e i dispositivi del cognitivismo neuroscientifico sono oggi i gestori più potenti, i quali stanno rimpiazzando la disciplina e la cura con la governance del sé.