Le traduzioni di testi transfemministi e queer stanno conoscendo un momento florido in Italia, con nuove case editrici e collane che diffondono testi più o meno recenti. Fino a una decina di anni fa il panorama era ben diverso e pertanto si può definire pionieristico il lavoro di àltera, collana di intercultura di genere inaugurata nel 2010 e da allora diretta da Liana Borghi e Marco Pustianaz per le pisane edizioni Ets, che – oltre ad annoverare ottime proposte italiane – ha reso disponibile per prima nella nostra lingua Halberstam, Barad, Zami di Audre Lorde.

LA COLLANA PUBBLICA ORA Vivere una vita femminista di Sara Ahmed per la traduzione di Marta D’Epifanio, Bea Gusmano, Serena Naim e Roberta Granelli (pp. 348, euro 28). L’edizione italiana del testo è dedicata a Liana Borghi, la cui scomparsa recente carica questa uscita di significato simbolico – ci troviamo nel mezzo di un cambiamento che comporta anche dei passaggi di consegne – e di un interrogativo sul futuro della collana.
Vivere una vita femminista è un libro sul disorientamento e sul disagio come presupposti di conoscenza e trasformazione, sulla collisione con muri divenuti tanto più difficili da abbattere quanto più ci viene ripetuto che «i muri non esistono più». I muri ci sono eccome, i privilegi pure ma si manifestano in modo più tangibile a chi non li ha. Perché, come scrive Ahmed, il privilegio è un «dispositivo di risparmio energetico», un sistema di supporto che elimina gli ostacoli sulla tua strada, ti tiene in piedi quando rischi di cadere, ti evita la fatica di rialzarti, rende invisibili barriere che altre e altri non possono ignorare.
Vivere una vita femminista allora non significa fare le «buone», adottare ideali o norme di comportamento vigilando e sindacando sulla vita altrui come fa comodo sostenere a chi delegittima il femminismo e lo derubrica a vizio censorio, a incapacità di confrontarsi con la realtà. Al contrario, il femminismo è un corpo a corpo con le cose, un impegno quotidiano a sfatare incantesimi, a disinnescare felicità edificate a scapito di chi non corrisponde alla norma.
Il libro si apre con una di quelle sintesi che contraddistinguono la prosa dell’autrice: «Il femminismo è sensazionale». Diventare femminista significa innanzitutto avvertire le ineguaglianze e le ingiustizie in ogni fibra del nostro corpo, reagire emotivamente, sentirci toccate (viene in mente Touching Feeling di Eve Kosofsky Sedgwick). Il femminismo ci mette in contatto con il mondo tramite l’alienazione dal mondo. Le iniquità ci si impongono nella forma di norme, ordini, strutture spaziali, modelli narrativi che sanciscono quel che è giusto o sbagliato, legittimo o illegittimo, desiderabile o indesiderabile.

IL FEMMINISMO SIGNIFICA dunque acquisire categorie d’analisi, elaborare contro-narrazioni, tessere relazioni più paritarie, trovare modi per sostenerci e per essere di sostegno a chi è poco, o per niente, sostenuta dai sistemi sociali, smantellare «la casa del padrone» (memori di Audre Lorde) e costruire la dimora che vogliamo.
Solo così il disagio catalizza la mutazione: «Pensa a quanto impariamo sui mondi quando non ci ospitano. Pensa alle esperienze che fai dove non è previsto che tu ci sia. Queste esperienze sono una risorsa che genera sapere. Usiamo le nostre specificità per sfidare l’universale».
Dall’esperienza alla teoria, dagli affetti alle parole alle pratiche. Affect è una parola-chiave per comprendere il metodo e il pensiero di Ahmed: rinvia al sentire, al subire un impatto ma anche alle potenzialità dell’impatto tra corpi e tra corpi e oggetti.

LA PRIMA PARTE del libro connette esperienze personali e presa di coscienza delle dinamiche sessiste e razziste che l’hanno investita. Attraverso ricordi o richiami letterari a Virginia Woolf, George Eliot, Rita Mae Brown, felicità, infelicità, irrequietezza e ostinazione assumono la consistenza di figurazioni teoriche, la più celebre delle quali è la guastafeste, la feminist killjoy, quella che con le sue osservazioni, domande, obiezioni, scelte erotiche o con la sua sola esistenza rompe le uova nel paniere delle istituzioni, della famiglia eteronormata, della cerchia femminista bianca e middle class. Killjoy è sin dall’infanzia chi non si mette il vestito buono alla cerimonia, chi non sorride quando dovrebbe, chi, senza neanche rendersene conto, quando nasce sua nipote manda una cartolina d’auguri azzurra: «devi sempre farne una questione femminista?» sospira la sorella disarmata.

LA SECONDA parte del volume è dedicata alle possibilità e ai limiti dell’utilizzo strategico della disaffezione nel tentativo di cambiare il sistema. Teniamo conto che il libro esce per la prima volta nel 2017, dopo che Ahmed si è licenziata dal Goldsmiths College di Londra a causa del modo in cui l’ateneo insabbiava il problema delle molestie sessuali. Lì, lei aveva fondato il Centre for Feminist Research e insegnato Race and Cultural Studies per molti anni, occupandosi a livello istituzionale di diversity. Ahmed esamina la «natura compromessa» del diversity work e la fatica che richiede lavorare per un sistema ingiusto tentando di cambiarlo.
La «guastafeste istituzionale» ha il compito di comprendere per quali soggetti è stata pensata la struttura in cui opera e insistere per aprirla a chi o a quanto non è stato considerato degno d’essere oggetto delle sue attenzioni. Tuttavia, essere chiamate a cambiare un’istituzione non significa che l’istituzione voglia cambiare per davvero, a volte vuole solo ottemperare a un obbligo di legge e attribuendo un incarico di lavoro non si aspetta che si faccia nulla d’incisivo.
Farlo può diventare un problema, chi lo fa può diventare il problema. Pertanto, quando si agisce in una struttura iniqua è necessario ingegnarsi per insistere e resistere allo svuotamento e alla strumentalizzazione, ma non è sempre possibile: «potremmo arrivare a dovercene andare, a un certo punto, se la nostra inclusione richiede di rinunciare a troppo, anche se non siamo tutte nella posizione di potercene andare». Sono pagine importanti pure per il contesto italiano dove l’università e altri luoghi di lavoro – tanto più insidiosi quanto più progressista è la loro fama – rischiano di delegare alla comunicazione «femminista» o «inclusiva» una cosmesi rischiosamente gattopardesca.

LA TERZA parte del libro di Ahmed è dedicata alle conseguenze del vivere una vita femminista in termini di risignificazione di parole (in primis «donna») e affetti quali fragilità e forza, che pur essendo antonimi non sempre è facile scindere. Come stabilire, infatti, quando un legame affettivo è nocivo e va reciso? Quali sono i legami che ci possiamo permettere di sciogliere? L’emotività è una debolezza o una forma di lucidità? L’autrice mette l’accento sulle potenzialità politiche dello scatto emotivo (lo snap femminista), di strappi, esplosioni e rivolte che fanno saltare il tappo quando non è più tempo di sopportare e pazientare. Quel che il femminismo costruisce può essere fragile ma per Ahmed non si tratta necessariamente di una perdita bensì di una qualità: «Un riparo fragile ha muri più porosi, fatti di materiali più leggeri, vedi come si muovono. Quando allentiamo i requisiti richiesti per stare al mondo, creiamo spazio per altre».
Chiudono il volume il «kit di sopravvivenza di una guastafeste» e il «Manifesto della guastafeste». Il primo indica le risorse che si possono assemblare per criticare l’esistente e progettare alternative (libri, tempo, umorismo, amiche guastafeste). Il secondo è il decalogo di colei che vuole rimanere infelice in un mondo che causa infelicità, che non sta in silenzio di fronte alla violenza, che non è disposta a ridere alle battute pensate per offendere, che riconosce nella presunzione di eguaglianza la tecnica di un potere che coltiva la diseguaglianza, una che si prende cura di sé e delle compagne non per autoindulgenza ma per resistenza perché, come scrive Audre Lorde, «non era previsto che sopravvivessimo».