In questa estate 2022 non si dovrebbe mettere piede a Venezia senza essersi prima informati sulla figura di Leonora Carrington. È a lei che si deve il titolo della Biennale curata da Cecilia Alemani, Il latte dei sogni, tratto da un suo libro di favole. È lei al centro della prima delle capsule storiche che scandiscono il percorso tra Giardini e Arsenale, oltre a essere protagonista anche sull’altra sponda del Canal Grande, nella mostra su Surrealismo e magia, alla Fondazione Guggenheim.

Per questo è preziosa la lettura del volume di Giulia Ingarao che Mimesis ha tempestivamente ripubblicato in nuova edizione (Leonora Carrington. Un viaggio nel Novecento, pp. 182, euro 16). Leggere il libro è come fare una vera cavalcata dentro il secolo, sulla scorta di una donna che non ha conosciuto timidezze o sensi di inferiorità e che si è sempre messa nudo, portando allo scoperto le sue fantastiche visioni.

CARRINGTON È CERTAMENTE una figura emblematica che documenta uno dei più radicali sommovimenti che hanno caratterizzato l’arte del Novecento: quello dell’autocoscienza femminile e della conseguente costruzione di un immaginario alternativo e anche antagonistico rispetto quello egemone maschile. Punto di innesco di questa liberazione è certamente l’incontro con il surrealismo, avvenuto a Londra nel 1936, in occasione della prima International Surrealist Exhibition. Carrington ha 19 anni, viene descritta da tutti di una bellezza fuori dalla norma. Da poco ha concluso un percorso formativo a Firenze, in fuga da un universo familiare troppo oppressivo.

L’anno dopo a Londra era approdato il più popolare dei surrealisti, Max Ernst. Per Leonora l’incontro con la sua arte e poi con la sua persona, aveva rappresentato una svolta. Per lui, come scrive Ingarao, fu un incontro «scardinante»: lei diventa la sua «femme-enfant», la «sposa del vento». Nell’autunno di quell’anno si trasferiscono a Parigi. È André Breton a testimoniare l’impatto di Carrington non solo su Ernst ma sui surrealisti: incarnava «il seducente incontro tra magico e selvaggio». Lei era sì «femme-enfant», ma anche «femme-sorcière». In due opere del 1939, Leonora e Max si rappresentano reciprocamente: lei lo immagina vestito di una pelliccia rossa su uno scenario di ghiaccio come uno sciamano che porta altre verità; lui invece la vede come la «sua Alice», vestita di bosco che solleva la gonna di fronde per mostrare le intimità.

IL 1939 PERÒ è anche l’anno della drammatica svolta. Per Max Ernst inizia la trafila delle prigionie e dei campi di concentramento. Leonora Carrington entra in una crisi depressiva profonda che la porterà alla scelta di lasciare l’Europa per gli Stati Uniti prima e poi, nel 1943, per Città del Messico con l’uomo che, nel frattempo, era diventato suo marito, Renato Leduc, giornalista, diplomatico e poeta.

Il Messico la conquista subito: «Arrivare qui è come arrivare in un altro pianeta. È un paese straordinariamente misterioso». Nella capitale trova una colonia di surrealisti emigrati, frequenta Frida Kahlo, Rivera e Orozco. Soprattutto conosce Chiki Weisz, fotografo di origini ungheresi, che nel 1936 aveva documentato la guerra di Spagna insieme a Robert Capa. Il rapporto tra loro sarebbe durato 60 anni ed è immortalato in quadro del 1944 intitolato Chiki, ton pays.

SULLO SFONDO di un paesaggio fantastico popolato di ibridi, si vede un bizzarro veicolo a forma di torretta con le ruote, all’interno del quale si riconoscono i due amanti: lei è vestita di bianco, ha zampe da cavalla e appoggia la sua criniera sulle spalle di lui. In un’altra opera di qualche anno dopo, si rappresenta come una gigantessa che si impone a una popolazione di lillipuziani in guerra. È come una Madonna del Parto in versione sincretistica e documenta la felice esperienza della maternità, con la nascita dei due figli avuti dalla relazione con Chiki, Gabriel e Pablo.

IL MESSICO sarebbe rimasto per tutto il resto della vita territorio prediletto in grado di alimentare all’infinito quel pantheon fantastico che ritroviamo nelle sue opere. Come per esempio in Cat Woman, una grande scultura presente alla mostra alla Fondazione Guggenheim: una donna gatto, che tra i seni custodisce un piccolo cavallo azzurro e che con la mano nega l’accesso al sesso. Come sintetizza Giulia Ingarao, una vera icona della «signora dei regni sincretici».