Visioni

Una Frontiera senza eroi

Una Frontiera senza eroiUn’immagine di «First Cow» di Kelly Reichardt

Cinema Presentato al New York Film Festival «First Cow», il nuovo film di Kelly Reichardt. Una riscrittura del genere western fatta di dettagli e venata da un’ombra di tenerezza

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 4 ottobre 2019

La ri-conquista del West di Kelly Reichardt è iniziata «ufficialmente» nel 2010, con Meek’s Cutoff, lo splendido racconto -a cavallo tra Storia e metafora- del viaggio di una carovana di pionieri sperduti e affamati nel deserto, intorno al 1840. Ma è dai suoi primissimi lavori che Reichardt ci ha abituati a quell’aggiustamento dell’occhio e della prospettiva (dei generi, degli stereotipi del gender, delle brutte abitudini narrative e dei cliché stilistici) che rendono il suo percorso così unico e radicale nella scena del cinema Usa contemporaneo. La «calma» che avvolge le sue storie, il lirismo minimal, sono infatti l’apparenza dietro a cui si nasconde lo spirito di rottura di una cineasta dalla determinazione ferrea.
First Cow, il suo ultimo lavoro, presentato al New York Film Festival dopo una tappa a Telluride, e ancora senza data d’uscita negli Stati uniti, è uno dei suoi lavori più belli; «un film praticamente perfetto», come mi ha detto un amico, direttore di una rivista di cinema Usa, all’uscita della proiezione stampa.

COME Meek’s Cutoff, First Cow è un western ancorato a radici storiche (la vita delle comunità di pionieri lungo l’Oregon trail, intorno al 1820), girato nel formato più antitetico allo Scope (lo schermo allungato, spesso sinonimo dei grandi spazi della Frontiera), l’1:1.33, quello più quadrato, del cinema americano classico, e adattato dallo sceneggiatore abituale di Reichardt, Jon Raymond, dal suo primo romanzo, The Half Life (2004). Evocato in questa nuova collaborazione tra scrittore e regista sullo sfondo dell’amato Pacific Northwest è anche Old Joy (2006), il racconto di un’amicizia di lunga data tra due uomini, rivelata nell’arco di una gita nei boschi. Anche First Cow è la storia di un’amicizia, quella che si crea tra il cuoco di un gruppo di trapper irsuti, Otis Fifowitz (Joe Magaro), soprannominato, Cookie, biscotto, grazie al suo trascorso in una panetteria del New England, e King Lu (Orion Lee) un immigrato cinese che Cookie scopre nudo e affamato in un cespuglio, inseguito – pare – da un gruppo di russi che vogliono ucciderlo.

IL LIBRO di Raymond funzionava su due piani temporali e due continenti, il primo ventennio dell’ottocento e il 1980, in Cina. Reichardt semplifica, affidando alla modernità un’immagine di apertura -un grosso battello industriale che risale il corso ampio di un fiume – un omaggio, ha spiegato ai giornalisti – all’amico e collega recentemente scomparso Peter Hutton, che come lei (e Nicholas Ray) insegnava cinema presso un’università che ha una lunga tradizione di cinema sperimentale, il Bard College; e in una breve scena in cui una ragazza a spasso con il cane scopre – sepolti – due scheletri distesi uno vicino all’altro. Fotografato da un altro partner frequente, Christophe Blauvelt, First Cow è un western di verdi e gialli intensi, di marroni profondi e di corsi d’acqua scintillanti; in cui i pionieri sono in genere troppo poveri per possedere dei cavalli, vivono in villaggi fangosi insieme ai nativi delle tribù locali e, invece di cacciare bisonti, ammazzano scoiattoli con trappole rudimentali a base di sassi, e poi se li mangiano.

COME AL SOLITO, la ri-scrittura di Reichardt è nei dettagli – lieve, appena divertita, venata da un’ombra di tenerezza. Si offenderebbe se la definissimo revisionista. In questa Frontiera poco spettacolare e poco epica (nonostante il nome pomposo dell’insediamento: il Royal West Trading Post) dove non c’è ombra di pepita, la East Coast rappresenta il sogno di raffinatezze perse per sempre, e San Francisco La città promessa, basta una mucca a fare notizia. Il bovino del titolo arriva in barca, dalla California, e appartiene a un possidente inglese (Toby Jones) che vive con la moglie indigena nell’unica casa che si può definire tale del RTP. Cookie e King-Lu, che hanno adottato uno spartano tran tran domestico in quel postaccio, ma non hanno rinunciato ai loro sogni, trovano nella mucca un’inaspettata opportunità. «Con il latte potrei fare delle frittelle dolci», sussurra Cookie assaporandone il gusto con la mente. Più concreto, l’amico si informa sugli altri ingredienti necessari e poi suggerisce una visita notturna a mungere l’animale. Il frutto di quelle spedizioni segrete, una pastella chiara da cuocere sul posto nell’olio bollente, diventa il polo d’attrazione del mercato locale – Cookie e Lu, seduti su un tappetino davanti a cui si raccoglie una lunga fila di uomini sudici, con i denti marci, che pagano banconote stropicciate per le frittelle. In un momento perfettamente proustiano, il possidente – attirato dalla fama del dolce e ignaro di essere lui stesso a fornirne la materia prima- al primo morso sorride sognante ed esclama:«È Cobble Hill!», improvvisamente trasportato nel quartiere elegante di Boston.

IL MITO della Frontiera, i sogni (che non erano solo dei bianchi), le fatiche, l’ingegno imprenditoriale, la fragile civilizzazione del Vecchio Mondo e la violenza sommaria di quello Nuovo, il paesaggio, l’oppressione dei nativi, la lotta di classe, i rapporti fraterni in una società essenzialmente maschile…In First Cow c’è tutto il West, anche quello che non ci hanno raccontato. È un film perfetto.

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