Il ventiduesimo dei 52 trattati che compongono la colossale enciclopedia redatta dagli Ikhwan al Safa’ (Fratelli della Purezza) è qualcosa di semplicemente stupefacente. Gli Ikhwan al Safa’ erano adepti di una società segreta islamica attiva a Bassora tra l’VIII e il X secolo e una parte cospicua del loro ventiduesimo trattato è stata recentemente resa disponibile in italiano, grazie all’eccellente lavoro di traduzione di Paola Tonussi per i tipi di De Piante Editore (pp. 135, euro 18). Già il titolo del libro – Il processo degli animali contro l’uomo – dovrebbe essere sufficiente a giustificare quanto affermato, ma lo stupore entusiasta è destinato a moltiplicarsi esponenzialmente dopo la lettura. Questo scritto redatto circa un millennio fa è, infatti, una serrata denuncia degli animali contro le violenze che quotidianamente subiscono per mano dell’Uomo. Se lo scheletro della favola mistica – questo il sottotitolo del libro – è semplice (una sorta di dibattimento in un’aula di tribunale di fronte a un re saggio di un’immaginaria isola edenica), la sua carne – mai come in questo caso il termine è adeguato – è densa e, soprattutto, modernissima: un vero e proprio manifesto antispecista ante litteram.

IN QUESTO inusuale processo, la posizione degli umani è chiara: facendo ricorso a «motivi tradizionali religiosi e prove razionali», essi rivendicano il diritto a sfruttare e uccidere gli animali – «Tutto dimostra che noi siamo i padroni e loro i nostri schiavi». Altrettanto chiara è però anche la tesi degli animali: l’unica «prova o ragione» che gli umani possono addurre per sostenere le loro pretese è «la forza bruta», non la forza del diritto ma il diritto della forza. Molti i motivi per cui questo testo è così potente e attuale. Innanzitutto, va a toccare senza mezzi termini ogni aspetto della violenza istituzionalizzata che l’Uomo perpetra ai danni degli animali: «Chiunque cadeva nelle loro mani veniva aggiogato, legato, messo in gabbia e incatenato. Lo massacravano e scorticavano, gli squarciavano la pancia, gli tagliavano gli arti e rompevano le ossa, gli strappavano i tendini o le piume, gli asportavano la pelliccia e lo mettevano sul fuoco a cucinare o ad arrostire su uno spiedo, o lo sottoponevano a torture anche più tremende, tormenti impossibili da descrivere». In secondo luogo, i tratti che gli umani rivendicano come propri – a cominciare da quelli che vengono ossessivamente richiamati ancora oggi: «statura eretta e intelletto superiore» – e che darebbero ragione del loro eccezionalismo e, quindi, del loro diritto a ridurre in schiavitù gli altri animali – sono smontati a uno a uno dagli animali che, di fatto, sostengono che non esistono caratteristiche presenti solo in una specie e assenti in tutte le altre – «Le capacità di percezione e perspicacia che vanti non sono uniche». Le differenze tra le specie, come avrebbe insegnato Darwin secoli dopo, sono di grado e non di genere.

IN TERZO LUOGO – e questa è un’acquisizione ancora più recente – gli animali rivendicano la loro agency: di fronte alla violenza umana, si danno alla macchia, scappano, diventano «schiavi ribelli». In quarto luogo – e questo è tutt’altro che acquisito – gli animali sanno che esiste uno stretto legame tra violenze apparentemente irrelate: «Ogni anno, ogni mese, ogni giorno e ogni minuto vediamo uomini che si prendono per il collo e siamo testimoni degli innumerevoli, infiniti mali che ne risultano – uccisioni, mutilazioni, saccheggi».
Infine, un’attenzione delicata è rivolta anche agli animali che riteniamo molto lontani da «noi» e che spesso provocano ribrezzo e repulsione: ragni, termiti, scorpioni, vespe. Le bestie filosofiche che centinaia d’anni dopo tanto avrebbero affascinato Gilles Deleuze.
Se quanto detto non vi ha ancora convinto dell’inquietante freschezza di questo libro, non possiamo che concludere parafrasando, in lingua laica, le sue conclusioni: speriamo che quanto narrato «possa aprirvi i cuori e illuminarvi gli occhi e facilitarvi il modo di mettere in pratica questi pensieri».