Quando il 4 luglio del 1994 Paul Kagame occupa Kigali a capo dell’Fpr (Fronte patriottico ruandese, fondato da esponenti della diaspora tutsi), uno dei più cruenti episodi di pulizia etnica che la storia dell’umanità abbia registrato volge al termine, portando di lì a poco alla dichiarazione ufficiale della fine del genocidio contro i tutsi in Ruanda. In una nazione grande poco più della Sicilia, posta nel cuore dell’Africa sulla sponda orientale del Lago Kivu – che la separa dalla Repubblica Democratica del Congo – nei 100 giorni intercorsi dal 7 aprile di quello stesso anno massacri a colpi di armi da fuoco, roghi e machete hanno causato un milione di morti (il venti per cento dei quali tra le fila di quegli hutu moderati che rifiutarono di prendere parte attiva all’abominio) su una popolazione di poco più di sette milioni di abitanti.

L’ORIGINE DI TANTO ODIO va ancora una volta ricercata nella storia coloniale di un paese collinoso e verdeggiante, coltivato da una maggioranza hutu ma governato da una minoranza di allevatori tutsi, élite sociale e culturale da cui proveniva anche la famiglia reale. Assegnato dapprima all’Impero germanico con la Conferenza di Berlino (1884), poi passato al Belgio dopo la Prima guerra mondiale, fu questo, secondo parametri razziali, ad imporre l’indicazione sui documenti dell’appartenenza «etnica» (considerandola genetica e dunque immutabile). Le tensioni sono state poi esasperate dopo l’indipendenza dall’odioso sistema delle quote e dall’introduzione del multipartitismo, fino a sfociare in uno sterminio di massa coordinato e diretto da un governo provvisorio riconosciuto e appoggiato dalla Francia e incitato pubblicamente da media come Radio Televisione Libera delle Mille Colline, che utilizzando le attrezzature della radio di Stato contribuì a invitare gli hutu a «completare il lavoro» di sterminio degli «scarafaggi tutsi».

In ricorrenza del trentennale dell’eccidio, Pietro Veronese, già inviato e caporedattore Esteri di Repubblica, riaccende i riflettori su quei tragici eventi con La Famiglia. Una storia ruandese (edizioni e/o, pp. 224, euro 18). Il libro raccoglie le testimonianze di nove sopravvissuti che in Italia hanno costituito una «famiglia d’elezione» che si è data il nome di Famiglia Ighihozo (letteralmente «consolazione»), i cui membri, che inizialmente non si conoscevano, oggi sono uniti da una memoria condivisa e terribile. Numerosissime in Ruanda ma poche fuori dal paese, le famiglie d’elezione rappresentano una forma di sopravvivenza unica al mondo, nata dapprima tra gli studenti universitari e poi estesa a vari strati della società allo scopo di ricreare rapporti parentali tragicamente recisi, occuparsi del benessere mentale dei membri, onorare la memoria dei cari uccisi, parlare del genocidio, organizzare commemorazioni.

DAI RACCONTI in prima persona che Veronese registra e intreccia in una narrazione polifonica ad alta partecipazione emotiva, emergono le voci di chi dall’orrore si è salvato riportando indelebili traumi e cicatrici di chi ha perso familiari, amici e la sua intera vita, e ha la necessità ora di ricordare e raccontare le atrocità inenarrabili, il clima di insicurezza e violenza crescente, le persecuzioni, le fughe, i campi profughi in Congo percorsi da periodiche epidemie di colera, le vite da sfollati e orfani, i disturbi post-traumatici, con la sofferenza che sempre accompagna il testimone-martire ma anche la speranza in un futuro di rinascita.