Silvia ha undici anni e due regni: il primo è la sua camera, con l’armadio a ponte e la scrivania a elle che tanto ha desiderato; il secondo è il sonno, in cui scivola con sapiente beatitudine tutte le volte che può, anche se le notti veramente «speciali» sono quelle in cui riesce a non addormentarsi subito, a sostare con gli occhi chiusi nei «meravigliosi interstizi» fra veglia e sonno, una «terra fertile di buio» in cui colleziona visioni, altre vite, altre Silvie.
La Silvia numero 1 ha i capelli biondi e gli occhi «color topo», un cuore da cardellino e le zampe di coniglio. Le piace ordinare i cassetti in ordine cromatico, immaginare l’apocalisse e autonominarsi salvatrice dei superstiti, riempirsi i polmoni dell’odore dei quaderni a righe appena comprati, indossare la tuta unisex del team di corsa campestre (se non fosse che per un lavaggio sbagliato la canotta bianca e blu è diventata rosa granchio).

LE SILVIE numero 2 sono tante: una bambina selvatica incontrata casualmente nel bagno di casa; una gemella silenziosa che se ne sta sui sedili posteriori della macchina mentre lei è davanti, accanto al papà; un’avversaria di giochi con cui immagina una partita spostandosi da una parte all’altra della rete; una sosia cartamodello, ritagliata con cura dalla mano materna, mentre le cuce un vestito; una compagna di squadra che diserta la gara di corsa, mentre lei taglia il traguardo al grido di «Forza bionda, sei prima!».
Denti di latte (Fandango, pp. 141, euro 13), il romanzo d’esordio dell’attrice e performer Silvia Calderoni, è un caleidoscopio di identità e esistenze, una diffrazione fluorescente e immaginifica in cui il tempo dell’infanzia si dilata, si ripete, riaccade, come nella moviola di un film o nella sala prove di uno spettacolo teatrale.

POCO INTERESSATA alla linearità del racconto, Calderoni costruisce un fondale mobile e ipnotico in cui tempo e spazio si ricombinano continuamente, come in sogno, anzi come nella fase antecedente al sonno che la giovane protagonista del romanzo ama tanto, quella ipnagogica, con i suoi fosfeni, le sue associazioni impreviste, le sue allucinazioni creative. Capace di sottrarsi, proprio come la personaggia di Denti di latte, alla dittatura della costruzione logica e della causa-effetto, Calderoni scrive un testo composito, ibrido, perturbante e al tempo stesso pieno di tenerezza e conforto per il lettore e la lettrice, che attraverso l’infanzia di Silvia ripercorrono la propria. Non certo per trovarle un senso, ma per restituirle quella quota di non-senso che è stata fondamentale per tutte e per tutti, prima che la prosa ottusa degli adulti imponesse margini e istruzioni per l’uso. La qualità del romanzo di Silvia Calderoni sta proprio in questo: recuperare il brillio dell’incomprensione, dare nuovo impulso alle cellule eretiche dell’infanzia, quelle che ci facevano stravedere di fronte agli eventi quotidiani, proteggendoci dalla cataratta del senso comune.
No, l’infanzia di cui racconta Calderoni non è il tempo edenico celebrato da chi non conosce le fiabe, semmai è una fiaba vera, piena di contraddizioni, paure, allegrie indecifrabili e dolori profondi, magie che funzionano e incantesimi che non funzioneranno mai.

Come quelli che la piccola Silvia cerca di evocare ogni volta che rientra a casa, quando sfida sé stessa a raggiungere il pianerottolo prima che il portone d’entrata segnali, con un tonfo, la sua chiusura: se arriverà prima allungherà la vita della nonna, troverà i compiti già fatti, interromperà la guerra in Iraq. «“Solo se arrivo prima del portone, solo se arrivo prima del portone…”. Corro come se fossi inseguita da un branco di lupi, da un assassino, dalla piena del Vajont. Una bambina non può avere tutte queste responsabilità».

EPPURE SILVIA sente di averle, come tutti i bambini, fra gioco e destino, onnipotenza e impotenza. Calderoni riesce a restituire con sapienza questo confine sottile, a tornare sulla soglia in cui tutti abbiamo sostato, indecisi, elettrici, pieni di solitudine e di magia, e lo fa senza infantilizzare né adultizzare quel momento, ma proteggendone il mistero. Dote rara in tempi in cui tutto si spiega con tutto, per arrivare a dire nulla. Denti di latte invece dice, senza la pretesa di rivelare alcunché, con la grazia di una bambina che piega i suoi calzini bianchi di spugna e, in una notte in cui ha paura di crescere, corre in cucina, prende una busta per alimenti e all’interno vi sigilla un quaderno dove ha scritto una sola frase a stampatello: «TI-VOGLIO-BENE-MAMMA». Sulla copertina l’avvertimento: «Per Silvia. Aprire nel 2000». Forse l’avremmo fatto tutti, se avessimo avuto sufficiente inventiva. Forse lo abbiamo fatto, e poi dimenticato. Silvia Calderoni, con la sua voce fresca, anarchica e gentile, ce lo ricorda, assieme al segreto che siamo stati.