Una entomologa tra simboli familiari e processo culturale
«Sanctuary Line», penultimo romanzo di Jane Urquhart, da Nutrimenti L’Ontario e le estati felici dell’infanzia sul lago Erie, le farfalle monarca, i braccianti messicani, la migrazione. La scrittrice canadese arricchisce di rimandi testuali il genere «saga postcoloniale»
«Sanctuary Line», penultimo romanzo di Jane Urquhart, da Nutrimenti L’Ontario e le estati felici dell’infanzia sul lago Erie, le farfalle monarca, i braccianti messicani, la migrazione. La scrittrice canadese arricchisce di rimandi testuali il genere «saga postcoloniale»
Introdotta in Italia da La Tartaruga negli anni novanta con il lodatissimo Altrove (1993, 1998) e il fortunato romanzo di esordio Niagara (1986, 2000), la canadese Jane Urquhart ha coinvolto con discontinuità la nostra editoria, pur assicurandosi nel corso del tempo un buon carnet di opere tradotte. È dunque con spirito di riscoperta che l’editore Nutrimenti punta adesso sul suo settimo e penultimo romanzo, Sanctuary Line (2010, traduzione di Nicola Manuppelli, pp. 238, euro 17,00), per un rilancio di questa scrittrice di ceppo irlandese, considerata l’esponente più giovane di una generazione solida che include Margaret Atwood, Mavis Gallant e Alice Munro.
Abile scrutatrice di «atmosfere» e «metamorfosi» ambientali, raramente Jane Urquhart ha rinunciato a trasferire nelle sue opere l’acuta sensibilità spaziotemporale congenita all’isola delle sue origini etniche. E quindi al legame atavico con l’Irlanda, come patria indomita da ritrovare altrove, si rivolge in gran parte anche Sanctuary Line, il cui titolo polisemico, proiettato in più direzioni spesso perdute in italiano, prende il nome da una stradina che dalle rive del Lago Erie, nell’Ontario occidentale – la regione dove Urquhart è nata nel 1949 –, s’inoltra verso un ‘santuario’ avicolo.
Il racconto è affidato alla voce della quarantenne Liz Crane, un’entomologa, chiamata presso quella riserva naturale per studiare i comportamenti migratori delle farfalle monarca. L’incarico le offre l’occasione di ristabilirsi nella decaduta fattoria degli zii Butler, divenuti col tempo prosperi ortofrutticoli anche grazie alla manodopera stagionale ingaggiata a basso prezzo dal Messico. Nella loro casa in riva al lago, Liz ha trascorso le estati felici della sua infanzia, fino a quando, negli anni ottanta, un evento torbido, provocato dal patriarca, il carismatico zio Stanley, manda in frantumi l’apparente idillio pastorale, portando la famiglia alla rovina e al disperdimento. Sullo sfondo della rievocazione si staglia la presenza umbratile della diversità degli umili lavoratori messicani.
Dopo la morte in Afghanistan di Mandy, la rimpianta cugina arruolata nelle forze di pace, Liz resta l’ultima erede di un mondo svanito, la depositaria del patrimonio culturale della famiglia e della sua complessa storia di immigrazione (inclusiva delle vicende di un ramo un po’ folle di guardiani di fari), che ella prova a ricostruire in un memoriale, riesplorando il passato, e interrogando le trasformazioni del paesaggio, i manufatti rurali abbandonati come reperti storici, gli oggetti della casa e i fantasmi che la abitano, ancora custodi dei loro segreti. Nei vuoti della memoria e dell’indecifrabilità del dramma vissuto da bambina, indelebile rimane per lei lo spettacolo dell’«albero delle farfalle», l’incanto esperito a ogni fine d’estate, quando per un breve lasso di tempo centinaia di esemplari si aggrappano ai rami di un albero, quello che – prima di intraprendere il viaggio di ritorno verso il Messico – la terza generazione delle monarca riconoscerà l’anno successivo come l’albero ‘paterno’: «un albero autunnale simile a un roveto ardente, un cedro divampante di ali. Guardando in fondo alle file di piante, la sensazione era come se le foglie di quel singolo albero fossero divenute arancioni durante la notte».
La monarca, con la sua fragilità rispettosa della fragilità di ciò su cui sosta nelle logoranti migrazioni – la fase in cui la maggior parte dello stormo troverà la morte dopo aver generato nuovi individui – è chiaramente il simbolo portante dell’affresco ricostruito da Urquhart, la quale, per l’occasione, si fa anche esperta entomologa, lasciando alla chiusura lo scioglimento dei segreti dei Butler.
Il senso di Sanctuary Line, che supera la formula della saga di famiglia tipica della narrativa postcoloniale, e si arricchisce di felici rimandi intertestuali, sembra fondarsi sull’incastro di accostamenti simbolici e culturali, sui rapporti tra sistemi eco-ambientali e il tempo scandito dal transito delle generazioni su territori dove si radicano processi di trasmigrazioni e colonizzazioni. «Ciò che mi lancia nella stesura di un libro – ha affermato Urquhart – è quel momento in cui scopro le connessioni tra elementi variegati».
Nel caso di Sanctuary Line, la connessione è quella che ella ha visto (per ragioni storiche e autobiografiche) tra «i braccianti messicani, le farfalle monarca, il fenomeno migratorio e la mutabilità». Quest’ultima è la legge cui sono soggetti – con i paesaggi – individui e membri di linee genealogiche, quando, nei loro spostamenti, «per o dal Messico, o l’America o Kandahar» (in Afghanistan), incrociano il diverso, provando a non compromettere, nel contatto, i legami di reciprocità dovuti negli incontri e nelle relazioni umane, che invece si dimostrano fragili come le ali di una farfalla.
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