Una tensione mai gratuita, l’intelligenza resa sottile dalle evenienze e la sensibilità partecipe da cui è informato il punto di vista narrativo di Louise Kennedy hanno determinato la fortuna critica del suo primo romanzo tradotto in Italia, Certi sconfinamenti. Sulla scia di quel successo esce adesso anche l’esordio della scrittrice irlandese, una raccolta di racconti, La fine del mondo è un cul-de-sac (traduzione di Valentina Maini, Bollati Boringhieri, pp. 201, € 18,00). Due i presupposti che rendono la lettura dei racconti coinvolgente e a tratti disturbante: in primo luogo, con ogni evidenza, l’autrice consuma fra quelle pagine una resa dei conti con i propri vissuti. Prima ancora di trovarne conferma nelle interviste, lo suggerisce la sensibilità amara che traspare nella scrittura, frutto del tentativo di contenere alcuni trascorsi dolorosi rielaborandoli in storie, se non salvifiche, almeno lenitive del dolore. Di questi travagli Louise Kennedy non esita a mostrare la stanchezza, e la frustrazione dei passaggi più difficili, accordandoli a uno stile denso che non teme un solo istante di sfilacciarsi e, anzi, sollecita il pathos senza mai scadere nella retorica.

Di fronte all’ineffabilità di certi lutti e di certi traumi, il lettore percepisce il terremoto delle relazioni tossiche e del perdersi scomposto di chi è travolto dalla vita. Sono contenuti espressi in una paratassi incalzante, dove prevale la sintassi più asciutta e ritorna con insistenza il tempo presente, restituendo in presa diretta gli scenari emotivi dei personaggi, pur senza tematizzarne i pensieri. Ciò che passa nella loro mente non è mai parafrasato: Louise Kennedy lo svela attraverso la descrizione dei gesti e dei dettagli dell’ambiente circostante, la scansione degli sguardi e dei movimenti, le reazioni del corpo alle azioni degli altri. La scrittrice irlandese evita di scomodare lo stile indiretto libero, rivolgendosi semmai al potere evocativo del suo naturalismo descrittivo. Sobrie, nitide e talvolta persino lapidarie sono anche le non rare immagini comiche dove la tensione, anziché sciogliersi, sembra normalizzarsi entro un orizzonte di crudeltà e di bellezza, lo stesso a cui ci sta sempre più abituando il lato gritty del cinema e della letteratura irlandesi.

La tendenza alla laconicità espressiva proietta candore e ferocia sulla natura, sui paesaggi e sulle persone ritratte nei racconti. Di riflesso, i simbolismi e l’ombra dei miti si stagliano in controluce senza rischiare l’invadenza propria a quella narrativa contemporanea ansiosa di legittimarsi nei confronti della tradizione. In «Belladonna», una ragazzina trova nella casa dei nuovi vicini, una giovane coppia, un’oasi di diversità originale e divertente rispetto al conformismo asfissiante della provincia. In qualità di ‘vicina’, le viene conferita l’autorità di confermare – inventando ed esagerando – alcuni pettegolezzi riguardo alla presunta violenza dell’uomo della coppia. Il racconto si chiude con un’inaspettata, epifanica immagine di questo povero marito, satura di innocenza e debolezza, ciò che fa percepire alla bambina la sua ingiustizia. Se in alcuni racconti i protagonisti toccano con mano quanto sia facile e istintivo agire con malvagità, in altri casi è la leggerezza impulsiva e potente della loro bontà a sprigionarsi dalle righe. Vale per uomini e donne, ma soprattutto per le giovani ragazze, delle quali Kennedy  descrive meravigliosamente la fragilità, nonché l’imperizia con cui si affidano al desiderio sessuale. A fronte di queste stesse circostanze, l’animalità degli uomini è invece una costante, raramente contraddetta dalla  dolcezza di alcuni personaggi: fra questi Peter il forestale o Ciaran, il migliore amico dell’amato fratello e amante della protagonista di «In controluce», che tuttavia – una volta sollecitato  – «eccotelo addosso come un cane». Del resto, recita l’incipit del libro, «Nella desolazione c’era una specie di bellezza».