Cultura

Una disperazione lucreziana

Una disperazione lucrezianaLuca Canali

Ritratti Un ricordo del grande latinista Luca Canali, traduttore raffinato, ma anche romanziere e poeta dolente

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 10 giugno 2014

In un suo romanzo, Luca Canali si effigia come il giovane affascinante professore che si compiace di «fare colpo» arrivando in facoltà con la sua spider. E così lo ritrae Maurizio Bettini, sui propri ricordi di studente a Pisa: non gli era sfuggito quello «strano latinista», che era un intellettuale impegnato, ma al contempo un uomo di mondo, e un affermato scrittore, non ancora falciato dalla depressione. È questo solo uno dei molti Luca che si sono inseguiti in una vita ricca tanto di successi quanto di infelicità.
Canali è stato un importante divulgatore della cultura latina, sia come traduttore (Lucrezio, Catullo, Virgilio, gli elegiaci, Lucano e molti altri), sia come autore di romanzi che «riscrivono» l’avventura biografica di alcuni grandi scrittori da lui sempre amati (si pensi a Lucrezio e Giulio Cesare). Ha avuto anche un’apprezzabile fortuna come romanziere, soprattutto con Autobiografia di un baro (1983), il libro che accompagnò le sue dimissioni dall’università con una pubblica confessione di tutti quegli aspetti del carattere (e della soccombente condizione di malato) con i quali, pur in costante lotta interiore, si trovava costretto a convivere.
Ma è stato soprattutto un poeta, e credo che di tutta la sua produzione, così ricca e divaricata dalla saggistica alla prosa d’arte, proprio la poesia sia l’ambito in cui si è espresso ai livelli più alti. Latinista in erba, sentii il mio maestro Bruno Luiselli esprimersi in modo toccante sulla raccolta La deriva (1979). Comprai quel libro e lo scoprii dolente, profondo e memorabile. Come quasi sempre le poesie di Canali: è specialmente nei versi che egli sa cogliere, della vita e delle sue complicate sinuosità, ciò che risulta essenziale e rilevante.
Più tardi ho avuto la fortuna di conoscerlo personalmente e collaborare con lui all’Antologia della poesia latina dei «Meridiani», di accedere alla sua casa tutta libri e felini, di cogliere in lui (da un vetusto divano) un Camões in disarmo che, esauritasi la candela, continua a scrivere al lume degli occhi del gatto. Il play-boy della spider era divenuto un anziano ferito, schivo, introverso. Ma era stato e rimaneva un uomo nobile e generoso. La melodia del Quintetto op. 115 di Brahms, dietro fattezze severe, degne del Velázquez che immortalò l’acquaiolo di Siviglia.
Da studioso, ho talora ripercorso il ruolo dei suoi scritti nella ricezione dei classici, e in questo ambito ho assegnato molte tesi su di lui. L’ultima, di Stefania Gargano (il cui capitolo biografico è da ieri disponibile su Facebook), chiarisce come, secondo una frase di Ripellino «ogni discorso sugli altri è un diario truccato» (proprio da Il trucco e l’anima). Nelle sue molte «riscritture» del personaggio di Catullo, Canali ha dipinto le proprie difficoltà nella sfera degli amori. Avvertiva in modo quasi invasivo e lacerante l’ineluttabile seduzione della bellezza femminile. E tanto più ne soffriva in quanto si sentiva inadatto a onorarla come amante plausibile, come attendibile marito.
Meno risaputo è che una parte della sua poesia si è rivolta, da lontano, al divino. Pur dall’osservatorio di un desolato materialismo, Canali ha guardato spesso con disperata nostalgia a quella forse illusoria, ma possibile, pace. Una ricerca che, a quanto pare, lo ha accompagnato fino alle ultime ore. È Il vuoto cui s’intitola una poesia di Stilemi (Milano 1982): «Tuona d’aprile. Pasqua è già lontana/ con due visite in chiesa per amore/ di figlia e sposa. Non sembrò blasfema/ tra i misteri eucaristici la visita/ d’un uomo senza pace e senza fede./ Scrosci di pioggia seguono quel tuono./ Non siamo andati in chiesa stamattina/ e sento un vuoto oscuro dentro il cuore,/ che non è fede riacquistata, o voglia/ di riacquistarla con scarsa moneta,/ è una forma indiretta, contro il vuoto,/ di ricondurre il sacro nella vita».
Nell’affollarsi delle voci, nell’usa-e-getta che connota molto dell’attuale rapporto fra lettere e pubblico, c’è da temere che in breve possano non essere più in molti gli «addetti ai lavori», o i semplici lettori, capaci di ricordarsi di lui. Sogno spesso una collana di Paralleli destinata a voci poetiche di prima qualità, come Enzo Mazza o Angelo Maria Ripellino, che paiono aver bisogno di alfieri convinti e tenaci per difendersi da «canoni sbrigativi’ e condanne all’oblio. Vi figura idealmente anche Luca Canali, in attesa di un auspicabile Meridiano che la sua voce austera e disperatamente lucreziana – della stessa «solenne tristezza» che Antonio La Penna segnala in Lucrezio – si è meritata.
Come è stato spesso ricordato, di fronte alla malattia Canali ha cercato, se non un’arma per «spezzare l’assedio» (è il titolo di uno dei suoi romanzi), almeno una sua difesa nell’affetto della figlia e nella costante pratica della scrittura, quasi un perpetuo esorcismo. Così mi sembra che il migliore congedo sia tornare a quei suoi versi di Interno famigliare (ancora da Stilemi), in cui Canali ferma un dialogo con la piccola Giulia. Ci sono i classici, la sorpresa e l’incanto della natura e della poesia, la tenerezza del padre: «(…) Ha voluto per commento al suo pasto che le narrassi una storia di Ulisse,/ e più tardi, entrando fra le coperte, mi ha chiesto notizie delle meduse:/ non sapeva che fossero animali, ho aggiunto che ustionano/ con il velo lattiginoso la mano protesa a ghermirle;/ allora ha chiosato con un errore che l’assembrava a un fraticello dei Fioretti:/ ’Gesù ha dato ad ognuno la sua difensione’».

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