Una direttiva per una conoscenza in formato open
Codici aperti Un incontro a Trieste tra ricercatori e docenti sull’editoria scientifica non sottoposta a copyright
Codici aperti Un incontro a Trieste tra ricercatori e docenti sull’editoria scientifica non sottoposta a copyright
Con due anni di ritardo, la direttiva europea «Barnier» sul diritto d’autore è stata tradotta in legge delega anche in Italia. Il lungo dibattito ha coinvolto soprattutto le associazioni degli autori di ambito artistico, in quanto la direttiva liberalizza la gestione dello sfruttamento commerciale delle opere d’arte, in Italia monopolizzata dalla Siae per legge, e rimasta tale anche con la nuova legge.
Eppure, il diritto d’autore non riguarda solo musicisti e sceneggiatori. Ad esempio, la comunità scientifica nei suoi vari attori (ricercatori, università, editori specializzati) rappresenta una fetta notevole del mercato del copyright. Gran parte dell’informazione scientifica, cioè gli articoli, le riviste e i libri che documentano l’attività accademica, è gestita da pochi gruppi editoriali che continuano a spremere profitti notevoli da abbonamenti e diritti d’autore venduti soprattutto agli stessi ricercatori. A differenza di altri settori dell’informazione, i cui margini di profitto sono stati erosi dalla diffusione dei media sociali e digitali, l’editoria scientifica prospera.
Il mercato internazionale delle riviste scientifiche ha un volume di affari che si aggira intorno ai sette miliardi di dollari ed è dominato dal gruppo anglo-olandese Elsevier, che accaparra circa un sesto dell’intera torta.
COME SPESSO HA RACCONTATO il manifesto, la libertà di accesso all’informazione scientifica è centrale nella definizione del carattere pubblico della ricerca. Oggi si assiste ad una situazione piuttosto paradossale: l’attività di scienziati e docenti è sostenuta in gran parte da investimenti pubblici, ma cittadini e istituzioni devono pagare tariffe fissate da pochi gruppi editoriali multinazionali per poterne conoscere i risultati.
Le campagne per allargare l’accesso all’informazione scientifica negli ultimi anni non sono mancate: sono nate riviste ad accesso gratuito, archivi digitali più o meno attivamente mantenuti da università ed enti di ricerca, siti internet dedicati alla circolazione «pirata» degli articoli scientifici (come scihub.org). Il problema è assai sentito dagli stessi accademici, poiché i costi per accedere alla letteratura specializzata sono sempre meno sostenibili a fronte di finanziamenti pubblici ridotti all’osso.
PER QUANTO RIGUARDA L’ITALIA, dal 2015 le tante iniziative hanno saputo federarsi nell’«Associazione Italiana per la promozione della Scienza Aperta» (Aisa) che pochi giorni fa ha tenuto il suo secondo convegno annuale all’università di Trieste. Tra i soci dell’Aisa figurano sette università e alcune decine di accademici, più o meno tutti gli addetti ai lavori sensibili al tema. Gli stessi che finora, in modo volontaristico e frammentario hanno tenuto viva la questione anche in Italia, come Antonella De Robbio o Maria Chiara Pievatolo.
Alla conferenza non si è discusso solo del prezzo delle riviste scientifiche. Scienza «aperta» non significa solo a «ingresso libero», ci dice Roberto Caso, professore associato di diritto comparato e presidente dell’Aisa. Lo scopo è «difendere la scienza e l’università dalla colonizzazione di logiche di mercato e aziendalistiche». Fa piuttosto impressione sentire parole così nette sul carattere pubblico dell’università. Caso, infatti, insegna alla facoltà di giurisprudenza dell’università di Trento, regolarmente citata quando si tratta di promuovere la collaborazione tra ricerca pubblica e imprese private. L’università trentina è tra le prime in Italia per qualità della ricerca ma soprattutto per quantità di investimenti privati.
LA DIFESA DEL LIBERO accesso all’informazione scientifica è spesso sostenuta anche da intellettuali di area liberista, in quanto si tratta pur sempre di una liberalizzazione. Invece Caso ci tiene a ribadire la ragione sociale della scienza aperta: mercificazione della ricerca accademica, aziendalizzazione delle università, capitalismo accademico sono tutte espressioni che descrivono un fenomeno nato negli Stati Uniti e ormai riguardante anche il contesto europeo ed italiano. La scienza aperta vuole essere indipendente dal potere economico e dal potere politico. Al centro di questa visione ci sono: libertà scientifico-accademica, cooperazione, democrazia, trasparenza.
Dunque, un tema piuttosto generale e da non riservare a un piccolo nucleo di impallinati com’è stato finora. Tanto è vero che il convegno ha riguardato molti altri aspetti dell’attività di ricerca. Primo fra tutti, la valutazione un tema strettamente legato al libero accesso. Infatti, la possibilità tecnica di pubblicare le proprie ricerche al di fuori dei soliti circuiti editoriali esiste già: basta un computer attaccato alla rete per fondare una rivista online indipendente. Ma boicottare Nature, Science e le altre corazzate dell’informazione scientifica è difficile perché esse certificano, almeno in teoria, la qualità delle pubblicazioni con un severo processo di peer review.
Il governo e le università, assistiti dall’agenzia nazionale per la valutazione (Anvur), assegnano fondi e incarichi universitari proprio sulla base degli indicatori bibliometrici. Al momento, la valutazione dell’Anvur sembra concepita in diretta antitesi alla scienza aperta. Ad esempio, il rating per fasce di qualità delle riviste nei settori delle scienze umane e sociali, o l’uso imposto per via normativa di banche dati commerciali che generano indici bibliometrici nelle scienze naturali, sono strumenti frontalmente contrari alla logica dell’apertura, sostiene Caso.
LA QUALITÀ, in un regime di apertura, potrebbe persino aumentare. «La trasparenza accresce l’efficacia delle procedure di controllo della scientificità dei risultati. Mediante l’open peer review è possibile allargare la platea dei «controllori» e cercare con più efficacia le frodi, i plagi scientifici e i conflitti di interesse.
La scienza aperta vuol farsi sentire anche sul terreno normativo. E visto che si parla di direttiva Barnier, a Trieste ha presentato una precisa proposta di modifica dell’articolo 42 della legge sul copyright. L’emendamento non ci gira intorno: «L’autore di un’opera scientifica che sia il risultato di una ricerca interamente o parzialmente finanziata con fondi pubblici, come un articolo, una monografia o un capitolo di un libro, ha il diritto di riprodurre, distribuire e mettere a disposizione gratuita del pubblico la propria opera entro al massimo un anno di tempo, e indipendentemente dai contratti firmati con gli editori».
NON È UNA MERA dichiarazione di intenti, perché una norma molto simile è già in vigore in Germania, Francia e Olanda, dove la Elsevier ha la sua sede mondiale. E i «National Institutes of Health» (Nih), la principale agenzia che finanzia la ricerca biomedica statunitense, si regolano nello stesso modo dal 2008. Con un impatto reale? Le leggi europee sono troppo recenti per fare un bilancio. La policy degli Nih ha invece 8 anni di vita. Ma si basa su un principio diverso: l’agenzia impone al soggetto finanziato di ripubblicare sull’archivio a accesso aperto della medesima agenzia (pubmed.gov) dopo un determinato periodo di tempo quanto pubblicato nelle sedi tradizionali. Il bilancio della policy è buono.
Praticare la scienza aperta è dunque qualcosa di più che mettere in piedi l’ennesimo sito web. Significa riconvertire l’intera filiera della produzione di conoscenza. Come ha scritto di recente Caso, solo attraverso l’insegnamento si può pensare di formare nuove generazioni di scienziati e ricercatori accademici votati alla ricerca cooperativa. Oggi, invece, negli atenei italiani si respira un clima da tutti contro tutti, alla conquista delle ultime briciole di finanziamento pubblico, e il governo vorrebbe educare alla concorrenza d’impresa già sui banchi di scuola. Se Germania, Francia e Olanda vanno in un’altra direzione, converebbe imitarle. Tanto sulle leggi non c’è copyright.
Editoria scientifica
I quattro magazine
del monopolio
I risultati delle ricerche scientifiche vengono divulgati principalmente con articoli scientifici pubblicati da riviste specializzate. Le più importanti, come «Nature», «Science» o i «Proceeding of the National Academies of Science», sono multidisciplinari e scelgono gli articoli da pubblicare dopo un processo di selezione severo basato sul parere di altri scienziati. Anche se questo lavoro di revisione è in gran parte volontario, abbonarsi a queste riviste è molto costoso. L’abbonamento a una singola rivista può costare migliaia di euro, e un ateneo importante deve fornire l’accesso a migliaia di riviste di ogni settore.
Gli editori delle riviste scientifiche sono tantissimi, pubblici e privati. Ma quattro di essi (Elsevier, Springer Nature, Wiley-Blackwell e Taylor & Francis) da soli si accaparravano oltre un terzo del mercato totale, che ammonta a circa 7 miliardi di dollari in totale (dati 2014). Oltre alle riviste scientifiche, esistono archivi online di articoli scientifici ad accesso gratuito. I principali sono www.arxiv.org (fisica) e www.pubmed.org (biologia e medicina) e sono sostenuti da fondi pubblici. Inoltre, negli ultimi anni sono nati social network specializzati per la comunità scientifica, come Academia e ResearchGate, su cui spesso i ricercatori diffondono gratuitamente i loro articoli
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