Una dimensione del tempo lontana, senza limiti
Intervista Il grande regista armeno Don Askarian e il genocidio attraverso i suoi film
Intervista Il grande regista armeno Don Askarian e il genocidio attraverso i suoi film
«Il tabacco con cui è fatta anche la Camel che mi sto accendendo ora, mentre rifletto, è cresciuto dal cranio di mio nonno caduto a Erzurum». Era iniziata così, nel settembre 1988, la nostra conversazione con Don Askarian, regista di origini armene che dal 1978 si era dovuto rifugiare a Berlino Ovest in qualità di «senza patria» – parole sue, che era presente al Lido di Venezia per il suo film Komitas dedicato all’omonimo monaco e geniale compositore armeno, programmato nell’allora sezione Orizzonti. Ripensandoci oggi sembra lontano eppur vicino essendo stato celebrato il 24 aprile 2015, il centenario di quello che è stato riconosciuto ormai da più di venti paesi nel mondo come genocidio, benché le controversie storico-politiche vertano esattamente su questo punto: il termine genocidio secondo i negazionisti era stato coniato nel 1945 per definire lo sterminio degli ebrei da parte dei nazi-fascisti. Può un massacro accaduto trent’anni prima, essere definito come tale? La risposta è sì, visto che persino il parlamento tedesco ha sancito che anche nel caso delle persecuzioni e delle uccisioni di massa del popolo armeno (il numero esatto varia da ventimila a due milioni, a seconda delle fonti) si era trattato di Völkermord, ossia di omicidio di popolo come dice il termine tedesco per indicare il genocidio. Perché il giorno del centenario cade il 24 aprile? Fu quel giorno, nel 1915, che a Istanbul c’erano stati i primi arresti e omicidi di intellettuali armeni da parte di addetti del governo dei «giovani turchi».
Torniamo a Don Askarian che nel frattempo di film dedicati al suo paese, alla sua gente, ne ha girati altri, molto premiati, e a proposito di Ararat 14 views (14 vedute sul Monte Ararat, il monte sacro del popolo armeno rimasto nel territorio turco-islamcio) ha scritto un breve testo molto significativo alla luce delle recenti reazioni del governo turco alle dichiarazioni solidali espresse da Papa Francesco. Lo si trova sul sito del regista nato nel 1949 a Step’anakert, capitale della piccola repubblica indipendente Nagorno Karabakh, e porta la data 12 dicembre 2006: «L’importanza di questo progetto si misura con quella della vita del suo autore e produttore, che si trova nella stessa situazione del protagonista, cioè a rischio di morte. Di norma la vita è più importante di una carriera, anche i film sono importanti e possono a loro volta uccidere o salvare vite umane. Date un’occhiata a ciò che produco, qualcuno deve pur dire ciò che rischia di sparire per sempre, e nel caso in cui mi sparassero vi accorgerete del perché lo sto facendo. Quest’articolo (un testo lungo pubblicato sulla stessa pagina del sito, nda) si sta scrivendo quasi da solo, mentre sono seduto qui, in mezzo a un paese del regno del KGB, sapendo che il mio nome è ormai rientrato nella terza edizione delle loro liste nere. Hanno ripreso da poco a sparare, a uccidere persone singole, in gruppo, dieci o cento alla volta. Impossibile non venire a sapere, ma non raggiungeranno mai più la cifra a cui erano arrivati quelli dell’impero precedente dove uccisero migliaia e migliaia di vite umane».
Ci disse, nel 1988, Don Askarian: «Il cinema non è per me un’arte sintetica (vecchissima bugia sostenuta da molti) per cui non faccio uso dei mille surrogati. I miei film tendono a nutrirsi dell’essenza degli elementi naturali e li metto in scena con pietre e piante, ad esempio mi è venuta un’idea bellissima per un film a soggetto: usare come attore protagonista un’asse di legno. Usando gli elementi naturali si possono narrare mille storie e ci si accorge che un albero è mille volte più sincero nella sua ‘interpretazione’ di tanti attori di cinema e teatro messi assieme. Un fiume può benissimo recitare un monologo, basta essere attenti e ascoltare, guardare con sensibilità. Un muro ‘scoperto’ dall’acqua racconta di più della storia armena che una biblioteca intera di testi storici e studi scientifici. Come un quadro narra in modo più complesso una storia». Allo stesso tempo Komitas, così come i successivi Avetik, il già citato Ararat 14 views e il più recente Father – in cui si segue un viaggio attraverso paesaggi aridi invernali freddi ghiacciati per raggiungere il padre, morto – i suoi film denunciano tutti in un modo o nell’altro il genocidio armeno. Di Komitas ci aveva detto: «Mi sono limitato a rappresentare la vita interiore di Komitas e di qui il titolo del film, appunto, che non è I fatti del 1915». Komitas fu testimone agghiacciato del genocidio in quel periodo storico, tanto da cessare di comporre e passare gli ultimi vent’anni della sua vita in manicomio. Erano troppe, quelle vittime, «i quasi due milioni di cadaveri che ogni tanto si rigirano nelle loro tombe invisibili provocando quei terremoti in Turchia che gli scienziati addebitano alle mutazioni della crosta terrestre», ci teneva a precisare Askarian. Avvenimento tragico che ha determinato la vita del popolo armeno senza stato e senza indipendenza politica che per la maggior parte ha perso la Heimat, la terra di origine: circa il 90% è rimasto territorio turco e il rimanente fu suddiviso. «La figura di Komitas è di estrema importanza per ogni cittadino armeno in quanto racchiude contemporaneamente l’elemento ‘tragico’ e quello ‘geniale’ e perché nei confronti di questo atto crudele aveva espresso una sua forma di protesta: il silenzio e l’indifferenza di fronte a un mondo capace di simili barbarie sanguinose. Ho voluto fare un documentario della sua Seele, dell’anima di quest’uomo, la cui vita era certamente stata segnata dalla politica. Ma non ho voluto fare propaganda, né accennare a fatti storici, la vita interiore si compone di altri fattori, non di studi ma di suoni, rumori, brani musicali, ricordi, viaggi. Tutti gli altri aspetti si possono sovrapporre al film, visto che la produzione artistica aspira a questa fruizione attiva. Il mio film per permettere questa visione attiva non si avvale di simboli ma di un livello espressivo denso che offre tante possibili letture. Naturalmente sto parlando di cinema come arte e non come forma commerciale con l’estetica da prostituta e l’ideologia da bottegaio con cui si chiedono soldi allo spettatore per il fatto che gli si fa un massaggio ai genitali». Per realizzare il suo poema sul popolo armeno Askarian non ha usato immagini illustrative dei fatti, ha preferito riprendere con macchina fissa o lente carrellate lo scorrere del tempo nella natura. «È stata mia bisnonna a insegnarmi la cosa più importante nel cinema, la dimensione del tempo, perché lei non aveva mai fatto uso né di orologi né di calendari creandosi una sua dimensione lontana da quella usuale».
Askarian era andato a Mosca nel 1967 per studiare storia e arte, poi ha lavorato come assistente di regia e critico, finché era finito in carcere per due anni nel 1975 per essersi opposto al servizio militare nell’armata rossa che per lui rappresentava «un’armata di occupazione, entrata nel ’56 in Ungheria, nel ’68 a Praga e poi nel mio paese, tenendo prigionieri dentro l’Urss ben centotrenta popoli che di fatto non vorrebbero niente a che fare con essa e impedendo loro di esprimere liberamente le proprie opinioni». Avrebbe voluto girare Komitas in Armenia per raggiungere il massimo di autenticità ma l’allora Unione Sovietica (che non aveva mai riconosciuto il genocidio) la pensava in modo diverso facendogli inviare una dichiarazione firmata dal direttore degli Studi cinematografici che Komitas era un film offensivo per il popolo armeno. «Ovvio che si trattava di uno sporco gioco politico e il fatto non rimase impunito: poco dopo quel direttore, complice della vicenda, morì. Fu mia bisnonna a mandargli una maledizione».
NOTA BIOGRAFICADon Askarian nato a Sepanakert (Nagorno Karabakh) il 10 luglio 1949 studia storia e arte a mosca, lavora come assistente alla regia e come critico per alcuni anni. Nel ’75-77 è messo in prigione per non aver voluto prestare servizio militare nell’armata rossa. Nel ’78 emigra a Berlino ovest ed ha poi continuato a lavorare in Germania, Olanda ed Armenia dove ha fondato la sua casa di produzione. Ha vinto numerosi premi internazionali. Nel 1996 ha pubblicato il libro «The Dangerous Light», nel 2002 la Harward Film Archive gli ha dedictao una retrospettiva, nel 2004 ha ricevuto la Golden Camera al festival di Trecianske Teplice (Slovacchia). I suoi film: Father (2008), Ararat – 14 Views (2007), On the old roman road (2001) Musicians (2000) Paradjanov (1998), Avetik (1992), Komitas (1988), Nagorno Karabakh: Armenian History Volumes IV and V (1988), The Bear (1984)
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