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Una dichiarazione dal basso: «Cambiare il sistema, non il clima»

Una dichiarazione dal basso: «Cambiare il sistema, non il clima»Messico, marcia per il clima – Reuters

Movimenti Dieci azioni concrete per evitare la catastrofe

Pubblicato circa 10 anni faEdizione del 23 settembre 2014

A New York, il segretario generale delle Nazioni unite, Ban Ki-moon ha incontrato anche i leader progressisti dell’America latina invitati alla conferenza sul clima, come la presidente del Cile, Michelle Bachelet. Bachelet ha illustrato i progressi compiuti dal continente latinoamericano e le preoccupazioni della regione per l’ecosistema in zone sensibili quali l’Amazzonia e il Cono sud. Evo Morales, presidente della Bolivia e altri suoi omologhi socialisti come il venezuelano, Nicolas Maduro, hanno partecipato ieri anche alla Conferenza mondiale sui Popoli indigeni, in cui hanno esposto la loro posizione «antimperialista» per la difesa della «Madre terra» e contro «l’escalation bellica» in Ucraina, Medioriente, Siria e Iraq.

I presidenti socialisti si fanno interpreti delle istanze espresse dai movimenti nel continente latinoamericano nelle assemblee dei mesi scorsi e sintetizzate nello slogan: «Cambiare il sistema non il clima». Lottare contro «il modello capitalistico predatorio»per risolvere alla radice le cause dell’inquinamento e del riscaldamento globale. A luglio, 180 delegati in rappresentanza di 3.000 organizzazioni sociali provenienti da tutto il mondo, si sono riuniti in Venezuela per elaborare le loro proposte da presentare alla Cumbre social de Cambio Climatico 2014. E in Perù, il 18 settembre, è stato lanciato ufficialmente il Vertice dei popoli di fronte al cambio climatico, che avrà luogo a Lima dall’8 all’11 dicembre.

Rivendicazioni visibili nelle manifestazioni di domenica, che si sono svolte dall’Argentina, al Brasile, alla Colombia. E l’anno prossimo, nell’Isola Margherita (nello stato di Nueva Esparta), il Venezuela ospiterà il vertice dei presidenti sul cambio climatico, organizzato dall’Onu in preparazione della ventunesima scadenza di Parigi.

Il Venezuela è un paese petrolifero che fatica a costruire un’economia non subalterna al sistema della rendita, ma ha scommesso a fondo sull’«eco-socialismo». Anche perché è uno degli 8 paesi con la maggior biodiversità del pianeta, legata soprattutto ai boschi naturali del paese. Secondo la Fao e la Banca mondiale, tra il 2000 e il 2010 sono stati distrutti 280.000 ettari di bosco all’anno: il che significa altri 100 milioni di tonnellate in più di CO2. Anche per questo, uno dei progetti più seguiti dal ministero dell’Ambiente è «la Mision arbol» che, tra il 2006 e il 2013 ha ripopolato 40.000 ettari di bosco, purtroppo pari solo al 2% dei 2 milioni di ettari persi nello stesso periodo.

Anche dal Venezuela è partito un documento sottoscritto il 16 settembre da oltre 330 organizzazioni, in rappresentanza di movimenti contadini, indigeni ed ecologisti di tutto il mondo – da Via Campesina alla Red Ambiental Indigena, dalla Coalizione mondiale per i boschi ad Attac Francia. Il documento denuncia l’influenza delle multinazionali e del settore privato sul Vertice Onu. Mette in guardia dalle «false e pericolose soluzioni» che le grandi corporation invitate da Ban Ki-moon stanno gettando sul piatto: molta propaganda, ma un nulla di fatto se non si cambia «un sistema economico ingiusto che mira a convertire tutto in merce e a finalizzare al profitto uno sviluppo indefinito, concentrando la ricchezza in poche mani e supersfruttando la natura fino al collasso».

I movimenti invitano a impegnarsi per un «cambiamento sistemico» invece di disperdersi in «vaghe promesse sulla riduzione delle emissioni. Propongono 10 azioni concrete per evitare il «caos climatico», tra cui l’esigenza di impegni vincolanti da parte degli stati per mantenere la temperatura del pianeta a non più di 1,5° centigradi. Si oppongono «ai grandi progetti di infrastrutture inutili» che non aumentano il benessere dei popoli ma l’effetto serra. Chiedono di mettere fine agli accordi di libero-scambio e agli investimenti che incoraggiano i profitti commerciali a livello internazionale, che «colpiscono i lavoratori, distruggono la natura e riducono la possibilità di definire le proprie priorità economiche, sociali e ambientali». Ritengono che si debba «sostituire il capitalismo con un sistema che leghi il cambiamento climatico e i diritti umani, assicurando la protezione delle popolazioni più vulnerabili, come i migranti, e riconoscendo i diritti delle popolazioni native». Per trovare il buon rimedio – dicono – bisogna definire il male. Il buon rimedio è quello di «ridistribuire la ricchezza, controllata dall’1% della popolazione mondiale».

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