Internazionale

La guerra informatica

Datagate Col caso Prism esplodono gli effetti di dieci anni di controllo sulla privacy

Pubblicato più di 11 anni faEdizione del 3 luglio 2013

Chissà se alla fine sarà proprio questa estate del 2013 a venir ricordata un giorno come l’inizio ufficiale delle guerre informatiche? O forse sarebbe più giusto farle risalire alle prime rivelazioni di Wikileaks, o magari l’attacco via «Stuxnet» – il virus creato da servizi «occidentali» per sabotare le centrali nucleari iraniane. Fatto sta che col caso Prism e la sorveglianza «totale» della Nsa, l’agenzia per la sicurezza nazionale, si cominciano a cristallizzare gli effetti di dieci anni di deriva cripto-paranoica su democrazia e privacy. In questa estate del caso Snowden, del processo a Bradley Manning, dell’escalation di reciproche accuse di hacking industriale fra Usa e Cina si delineano i contorni di un nuovo ordine mondiale dai fragili equilibri asimmetrici e sommersi. Lo confermano le rivelazioni che si susseguono a un ritmo vertiginoso; i timori dei complottisti più paranoici ormai corroborati quotidianamente dalle divulgazioni di Edward Snowden.
Un episodio della serie Bbc “Mi5”, scritto nel 2006 da David Farr immaginava un summit sul commercio globale in cui i delegati venivano intercettati dagli agenti inglesi nel centro in cui erano ospiti per poterne prevedere strategie e pilotare i negoziati. Solo due settimane fa l’Inghilterra ha dovuto ammettere di aver effettivamente spiato il G20 del 2009, giungendo ad allestire fasulli internet point per i delegati di modo da poter meglio intercettare le comunicazioni degli invitati. Il che spiega forse in parte il sostanziale «mbé?» di John Kerry a chi gli ha chiesto conto dello spionaggio sugli alleati europei: «L’acquisizione di ogni informazione disponibile non è inusuale» ha detto, spiazzato, il segretario di stato, cioè «tutti lo fanno e lo sappiamo tutti», ed è effettivamente difficile credere che davvero i governi e i servizi di tutti i paesi non fossero, non siano, al corrente delle regole del gioco. Certo l’eccezionalismo americano, fondamento dichiarato della geopolitica Usa sin dalla dottrina Monroe, è alquanto abrasivo quando apertamente esplicitato, ma la levata di scudi europei sulle intercettazioni è quantomeno sospetta.
C’entra anche stavolta, come nello sceneggiato Bbc, la vigilia di una rinegoziazione cruciale sul commercio transatlantico? È lecito il sospetto di un calcolo del capitale politico nel momento in cui il viaggio africano di Obama rammenta alla «vecchia» Europa che le partite cruciali sono destinate a giocarsi su tavoli più lontani? Quelli ad esempio di mercati emergenti plausibilmente più centrali agli interessi globali degli Usa. Specialmente se si tratta di far fronte alle aggressive politiche cinesi nel continente nero col suo gigantesco serbatoio di risorse naturali e futuri mercati. In questo mondo di equilibri in rapida evoluzione, delle incognite arabe e nordafricane, turche e brasiliane, il datagate euro-americano è in fondo un fenomeno familiare, rimanda vagamente all’ambasciatore sovietico con la micro camera aggredito da George Scott nella stanza dei bottoni del Dr. Stranamore.
Il groviglio oggi è invece ben più complicato come dimostra la vicenda da cui in qualche modo è scaturito tutto, con Edward Snowden intrappolato in un aeroporto come Tom Hanks in quel film di Spielberg (“The Terminal”), un apolide in balia di forze nascoste ai nostri occhi. Cosa che ha scatenato gli umori di Putin, novello paladino della trasparenza o come con l’ultima sinistra dichiarazione, ex-Kgb tutore degli interessi del «partner» americano: «Potrebbe avere asilo da noi ma deve smettere di straparlare». Un gesto, forse, di «buona volontà» in vista del prossimo summit con Obama previsto per il G20 di San Pietroburgo a settembre.
Sicuramente le opzioni di Snowden si stanno restringendo e chissà che non rimpianga in retrospettiva di aver lasciato Hong Kong dove una squadra di legali si sarebbe apprestata a difenderlo dall’estradizione. Apparentemente ha seguito invece i consigli di Wikileaks per una fuga «sicura» verso l’Ecuador salvo infine arenarsi nella zona transiti dell’aeroporto di Mosca dopo che il presidente Correa si sarebbe risentito per una mano giocata troppo in fretta, e senza autorizzazione, da Assange.
Una vicenda avvincente – come una partita di scacchi le cui pedine sembrano stringersi inesorabilmente intorno a lui, una partita di cui non ci è dato conoscere, al massimo intuire, le trattative sommerse. E tuttavia non è la sorte di Snowden, per quanto potenzialmente drammatica, il nocciolo della questione, ma il peso delle sue rivelazioni. E quanto queste potranno influire sul futuro della democrazia. Non sono le cimici nelle ambasciate il vero problema ma i Big Data immagazzinati nei supercomputer Nsa – e quelli che ogni giorno noi stessi affidiamo volontariamente ai social network dei nuovi oligarchi di Silicon Valley; complici nel rendere merce di scambio i nostri dati personali. Tanto quanto lo siamo nel avallare una nuova democrazia sempre più «segreta».

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento