Una critica ecologica dell’economia
Saggi «Ecologia-mondo e crisi del capitalismo» del sociologo statunitense Jason W. Moore per ombre corte
Saggi «Ecologia-mondo e crisi del capitalismo» del sociologo statunitense Jason W. Moore per ombre corte
La crisi ambientale è un elemento acquisito sul quale non ci sono dubbi in proposito. Controverse sono però le ragioni che l’hanno scatenata: meglio prestare attenzione ai limiti fisici alla crescita economica oppure alle contraddizioni sociali che accompagnano lo sviluppo capitalistico-industriale? Difficilmente chi s’interessa di ecologia politica sarà scampato a questo interrogativo. Del resto gli scaffali di librerie e biblioteche abbondano di volumi volti a sostenere l’una o l’altra opzione, perlopiù scritti da autori che non disdegnano di arroccarsi sulle rispettive posizioni. Quindi: da un lato cambiamenti climatici, desertificazione ed esaurimento delle falde acquifere; dall’altro precarietà, allungamento della giornata lavorativa e crisi della democrazia. E in mezzo? Solo legami indiretti? E se fosse invece la forma disgiuntiva (aut-aut) a fare problema? È questa una delle ipotesi di fondo avanzate da Jason W. Moore in Ecologia-mondo e crisi del capitalismo (a cura di Gennaro Avallone, ombre corte, euro 16), volume che finalmente rende disponibili in italiano alcuni dei testi più dibattuti nel contesto internazionale.
Un paralizzante dualismo
Il sociologo americano (allievo di Giovanni Arrighi, tra i massimi studiosi dell’economia-mondo capitalistica) parte dal presupposto che l’idea di una natura esterna ai processi di valorizzazione non sia che un effetto ottico, un puntello ideologico a cui si è appoggiato il regime di accumulazione emerso dalle temperie del «lungo XVI secolo» descritto da Fernand Braudel. Esso affonda le proprie radici in un duplice riduzionismo: l’ambiente visto come risorsa infinita e gratuita – all’inizio del processo economico; l’ambiente percepito come discarica per rifiuti altrettanto infinita e gratuita. La riflessione di Moore prende le mosse da una critica appassionata e feroce di questo dualismo: il concetto di ecologia-mondo rimanda infatti ad una commistione originaria tra dinamiche sociali ed elementi naturali che compongono il modo di produzione capitalistico nel suo divenire storico, nella sua tendenza a farsi mercato mondiale.
Il capitalismo «non ha un regime ecologico», bensì «è un regime ecologico». Sfruttamento e creazione di valore non si danno sulla natura, ma attraverso di essa – cioè dentro i rapporti socio-naturali che emergono dall’articolazione variabile di capitale, potere e ambiente. Le soglie di irreversibilità contano eccome – è certo che se il throughput aggregato, cioè l’insieme dei flussi di materia ed energia che attraversano il sistema economico, continuasse a crescere esponenzialmente, allora i limiti di rigenerazione bio-fisica verrebbero raggiunti con conseguenze imprevedibili nel dettaglio ma indubbiamente catastrofiche per la vivibilità della Terra. Tuttavia, sarebbe erroneo considerare la profonda complessità dei rapporti tra sistema economico e biosfera completamente esaurita dal discorso sui limiti fisici.
Il regime dell’appropriazione
L’esperienza ecologica, infatti, non si dà immediatamente, bensì per mezzo di filtri storici quali i modi di produzione, le istituzioni, le consuetudini. In buon misura è dall’interazione di questi fattori sociali che emerge qualcosa come un «limite fisico». Insomma, capitale e natura non si fronteggiano al modo del soggetto e dell’oggetto: più che le polarità, in questo caso è la relazione a prendersi la scena.
Da questo punto di vista va sottolineato il significato inedito che in Moore assume l’espressione «produzione della natura». Essa va infatti intesa nel duplice senso del genitivo: da un lato come esito di un processo di messa in forma del «naturale» che lo fissa nel registro della res extensa e dell’appropriazione; dall’altro come parte attiva che costringe il rapporto di capitale a rimodellarsi lungo il proprio profilo. Sulla base di questa critica epistemologica l’autore non solo rilegge in maniera originale alcuni passi marxiani, ma propone anche al dibattito eco-marxista alcune innovazioni di grande interesse. Nel primo caso egli individua in Marx – accanto alla ben nota riflessione sulla sovrapproduzione di merci – una teoria della crisi da sottoproduzione delle nature extra-umane necessarie all’accumulazione capitalistica (cibo, energia e materie prime a basso costo). A partire da qui Moore interroga – talvolta polemicamente – i teorici della frattura metabolica tra società e natura (rielaborata in particolare da John Bellamy Foster nel fondamentale Marx’s Ecology) e giunge infine a proporre concetti di sicuro impatto quali «natura sociale astratta» e «caduta tendenziale del surplus ecologico». Si tratta di elementi davvero cruciali nell’elaborazione di una sempre più necessaria critica ecologica dell’economia politica.
L’importanza del lavoro di Moore non sta esclusivamente negli alti cieli della teoria. La prospettiva dell’ecologia-mondo, infatti, fornisce una chiave di lettura originale all’attuale crisi del neoliberalismo e dei processi di finanziarizzazione della vita che l’hanno sostenuto negli ultimi trent’anni. La tesi avanzata nel libro è forte e chiara: il collasso del sistema finanziario mondiale del 2008 è un effetto amplificato di una crisi più profonda, dipanatasi tra il 2003 ed il 2008 e rappresentata da una lunga e inflazionistica esplosione del prezzo dei beni primari.
Lo stallo neoliberale
Oggi non solo la disponibilità di «natura a buon mercato» è finita, ma neppure si intravedono all’orizzonte strategie adeguate ad una diversa e più economica produzione di natura. Da un lato le biotecnologie non hanno mantenuto la promessa di rivoluzionare l’agricoltura ingigantendo i raccolti, dall’altro l’inclusione dei beni alimentari nei circuiti finanziari non è stata in grado di ridurne stabilmente il costo. Benché Moore non utilizzi toni «crollisti», l’impressione è che le sue analisi tratteggino lo stallo neoliberale come crisi epocale o definitiva piuttosto che evolutiva. Non ne sono sempre chiare le ragioni, ma indipendentemente da questo la sua rilettura ecologica della crisi finanziaria rimane imprescindibile.
Si può forse muovere un ulteriore appunto al lavoro di Moore, come del resto segnala Gennaro Avallone nella sua introduzione: si tratta del poco spazio concesso alle lotte socio-ecologiche che quotidianamente sfidano l’egemonia neoliberale ai quattro angoli del pianeta. In particolare, ciò che manca è il riconoscimento del carattere generativo di questi conflitti: è grazie ad essi, infatti, che conquistiamo un punto di vista adeguato sul capitalismo come ecologia-mondo e sulla fragilità delle sue strategie di accumulazione. Ad essi dunque bisogna tornare, affinché le conoscenze che Moore ci consegna si facciano strumenti di resistenza diretta.
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