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Una crisi peggiore del 2008, ci vorrebbero i «coronavirus bond»

Una crisi peggiore del 2008, ci vorrebbero i «coronavirus bond»

Economia Una situazione inedita richiede una fuoriuscita dall’ordinario. Non basta più che la Fed tagli i tassi di interesse di mezzo punto, né altri quantative easing della Bce

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 6 marzo 2020

Il coronavirus fa paura, l’Ocse parla di «rischio senza precedenti» per l’economia, che potrebbe dimezzare la sua crescita (da una stima del 2,9% ad un effettivo +1,5%). C’è un problema dell’offerta (chiusura delle fabbriche, blocco della catena internazionale del valore) e un problema della domanda, estera e interna. Isolamento di aree geografiche, inasprimento della prevenzione.

Unite alla paura generale, stanno infliggendo colpi durissimi all’economia globalizzata, molto più di quanto abbia fatto la grande crisi finanziaria del 2007-2008.

Una situazione inedita che richiede una fuoriuscita dall’ordinario. Non basta più che la Fed tagli i tassi d’interesse di mezzo punto o che la Bce pensi a nuove iniezioni di liquidità nel sistema bancario, attraverso il quantitative easing o il rifinanziamento a tassi agevolati degli istituti di credito. E’ ridicolo che in una situazione così eccezionale si insista ancora ed unicamente sul «meccanismo di trasmissione della politica monetaria all’economia reale».

In Europa, peraltro, questo «meccanismo» ha dimostrato tutta la sua fallacità in questi anni. La politica ultra-espansiva della Bce (tassi a zero o sottozero e liquidità a iosa per le banche) coniugata con l’austerità fiscale si è rivelata acqua fresca per l’economia, come dimostra l’andamento dell’indice dei prezzi al consumo nell’ultimo decennio. Siamo ancora lontani dal target del 2% fissato a Francoforte e ben al di sotto dei valori del 2011-2012, gli anni della cosiddetta «crisi dei debiti sovrani».

L’inflazione troppo alta, mangia il potere d’acquisto di stipendi, salari e pensioni. Ma se è troppo bassa, significa che la gente non spende, perché risparmia o, soprattutto, perché non ha soldi da spendere. Proprio come in Europa, dove alcuni

Paesi come l’Italia rimangono sull’orlo della deflazione, con conseguenze importanti anche sulla sostenibilità dei conti pubblici.
I soldi servono, ma devono arrivare all’economia ed ai cittadini. In Europa, l’autorità monetaria è un «sistema» (Sebc), composto dalla Bce e dalle banche centrali nazionali. Quando si dice che la Bce stampa soldi per comprare dalle banche private titoli di stato dei Paesi membri, si dice una cosa solo in parte corretta. In realtà, ogni banca nazionale compra i titoli del suo Paese in proporzione alla quota di capitale della Bce che possiede, assumendosi direttamente il rischio di insolvenza che ne deriva. La Bce stampa i soldi e le banche centrali nazionali li prendono in prestito per acquistare titoli di Stato dalle banche commerciali. Quest’ultime sostituiscono titoli illiquidi con moneta fresca. Ma questa moneta resta intrappolata nel circuito bancario e della speculazione, non arriva all’economia, ai cittadini.

L’epidemia intanto ha messo sul piatto una serie di esigenze: c’è bisogno di più soldi per la sanità (strutture, dispositivi, personale) e soldi per non far collassare il sistema produttivo. In sostanza, lo Stato deve spendere di più. Anche Confindustria è convinta che adesso «la domanda pubblica deve compensare l’arretramento di quella privata» (quando tutto precipita, il laissez-faire può attendere) e propone un piano da mille miliardi per l’Europa da finanziarsi con l’emissione di eurobond.

Nel caso europeo, nondimeno, la soluzione potrebbe essere ancora più semplice (e più efficace). Nel quadro di alcuni parametri fissati dalla Commissione (tenendo conto della crescita, dell’inflazione, della disoccupazione di ciascun Paese), ogni singola banca centrale nazionale andrebbe a finanziare una quota di spesa pubblica statale attraverso l’acquisto, direttamente dal Tesoro, di bond appositamente emessi.

Una sorta di «coronabond», senza scadenza, perpetui, il cui rendimento sarebbe scontato agli Stati attraverso l’incasso dei diritti di signoraggio. Niente paura, più o meno è già così. Oggi, ogni banca nazionale ha un cosiddetto «reddito monetario», derivante dal flusso di interessi sugli attivi detenuti come contropartita (titoli di Stato) delle banconote in circolazione e dei depositi bancari. Questo reddito, dopo aver fatto il giro di Francoforte, ritorna alle banche nazionali che, a loro volta, lo girano agli Stati.

Sarà per questo che, a proposito del denaro, si parla spesso di «magia». Ma possibile che di questi prodigi gli unici a non poterne godere debbano essere i cittadini?

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