Una crisi di strategia a lungo raggio
Mentre chiudiamo questo articolo non sappiamo se azienda, sindacati e governo raggiungeranno in extremis un accordo che permetta di mantenere in vita l’Alitalia, quella che una volta era denominata come […]
Mentre chiudiamo questo articolo non sappiamo se azienda, sindacati e governo raggiungeranno in extremis un accordo che permetta di mantenere in vita l’Alitalia, quella che una volta era denominata come […]
Mentre chiudiamo questo articolo non sappiamo se azienda, sindacati e governo raggiungeranno in extremis un accordo che permetta di mantenere in vita l’Alitalia, quella che una volta era denominata come compagnia «di bandiera».
Un nome, compagnia «di bandiera» appunto che, visto come sono poi andate le cose nel nostro paese, sembra ora persino profetico, in qualche modo simbolizzando la crisi in cui si è progressivamente venuta infilando la situazione italiana, sul piano economico come su quello politico.
Sul primo fronte, continua, tra l’altro, la cessione del nostro patrimonio industriale. È di questi giorni la notizia che la Magneti Marelli sarà comprata dai giapponesi e che una quota rilevante della Esaote Biomedica passerà anch’essa al capitale straniero, forse ai cinesi. Ma non trattandosi questa volta di Mediaset, nessuno se ne cura.
In mancanza di un accordo dell’ultima ora, gli azionisti di Alitalia minacciano di non procedere all’aumento di capitale necessario alla sopravvivenza della società, con il suo conseguente fallimento. Peraltro, in Italia gli ultimatum vengono spesso rimandati.
Non si tratta certo della prima crisi cui si trova di fronte l’impresa.
L’Alitalia è stata fonte di disastri per più di sessanta anni, con qualche breve periodo di respiro. L’ultimo bilancio in utile è dell’inizio degli anni novanta.
Guidata di frequente da manager incapaci ma obbedienti ai politici, che la pilotavano (è il caso di dirlo) alla giornata, essa ha prodotto nel corso della sua storia tante perdite, moltissime assunzioni di favore, un permanente caos organizzativo, qualche crisi di depressione tra i dipendenti coscienziosi; le sue vicende sono, tra l’altro, una dimostrazione del fatto che il nostro paese è oggi difficilmente in grado di gestire con risultati accettabili una grande società di servizi.
L’azienda è per molto tempo restata in vita da una parte per il sostegno finanziario del gruppo Iri, dall’altra per il fatto che applicava delle tariffe elevate, dato che operava in una situazione di virtuale monopolio in Italia. Ma poi è venuta l’apertura delle frontiere e il conseguente arrivo in forze dei vettori low-cost, che, sostenuti anche da qualche sovvenzione da parte dei nostri enti locali e dall’ incoraggiamento anche del governo, hanno progressivamente occupato gran parte dello spazio di mercato.
Una prima crisi è stata apparentemente a suo tempo risolta con la brillante operazione dei «capitani coraggiosi» messa in atto dal governo Berlusconi, che aveva invece rifiutato sdegnosamente l’offerta di acquisto da parte di Air France. Ma la soluzione ha fatto quasi subito acqua da tutte le parti e una seconda, inevitabile e grave crisi verrà apparentemente risolta con l’intervento nel capitale degli arabi di Etihad Airways. Del risultato si attribuirà questa volta tutti i dubbi meriti il governo Renzi, anche se essi andavano in realtà spartiti con l’esecutivo guidato da Letta. Come garanzia del risultato finale è stato ovviamente nominato presidente della compagnia il solito Montezemolo. Ma anche questi nuovi azionisti sono falliti nell’impresa e nel 2016 l’azienda, a fronte di ricavi per 2,8 miliardi di euro, ha presentato una perdita per 466 milioni. Le proiezioni «inerziali» prevedono un disavanzo per il 2017 di circa 650 milioni di euro. Anche con gli arabi le cose non hanno in effetti funzionato; il mercato del corto e medio raggio è sempre più dominio delle low cost, mentre i nuovi azionisti non hanno saputo inserire la compagnia in una strategia di più forte presenza nel lungo raggio.
Ora gli stessi azionisti hanno presentato un piano che prevede, come tutti i programmi di salvataggio di questo mondo, un pareggio di bilancio di qua a qualche anno, nel 2019, e un profitto dignitoso per il 2011. Tutto questo, peraltro, in presenza di alcune piccole condizioni: un taglio del 20% della forza lavoro (con 2037 licenziamenti) e una riduzione degli stipendi di piloti e hostess di più del 30%, risparmi sugli altri costi di gestione per 350 milioni di euro, alcune esternalizzazioni, nonché un rilevante aumento dei ricavi. Ma i tagli sui costi di gestione appaiono irrealistici e l’aumento del fatturato poco credibile, in assenza di un piano che spieghi come si potrebbe riuscire a ottenerlo.
In queste ore si stanno esplorando parecchie ipotesi, dall’intervento di qualche rete sociale di protezione per i dipendenti, riducendo comunque i tagli previsti, di una qualche garanzia sempre del governo su nuove linee di credito, il coinvolgimento nell’operazione di Invitalia e così via.
Ma tutto ci sembra a lungo termine inutile senza un netto cambio di strategia. Sorge un dubbio: è ancora possibile inserirsi nel lungo raggio di fronte ad una concorrenza agguerrita e la minaccia ormai vicina di un ingresso anche in questo segmento del low cost? Lufthansa e Air-France ci sono riusciti, almeno per il momento. Ma rimane ancora qualche spazio disponibile?
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