Se, per ingiunzione pasoliniana, la realtà scrive se stessa attraverso le immagini, delegandosi alla loro carne, alla loro materia fibrosa (di luce), dentro il flusso ininterrotto di quadri, inquadrature che danno senso alle cose, in un enorme arazzo appeso alle pareti del tempo, in cui anche i soggetti non possono che essere assoggettati alla dimensione iconografica, «scritta» del mondo; allora anche la storia, soprattutto quella recente, non può che passare da questo cursorio andirivieni di scene, scrutabile, auscultabile in una continuità e concentricità di schermi, film dentro ai film, obiettivi dentro obiettivi. Il racconto della storia, tanto più nell’ambito della «condizione postmoderna», diviene fenomenologia delle immagini (una ridda di icone furiose «sparate» negli occhi a grande velocità), come accade ad esempio in Civil War di Alex Garland e com’è successo nei giorni scorsi a proposito dell’attentato a Trump, il cui senso profondo sembra risiedere nella superficie dell’apparenza televisiva, mediatica che ne ha sciorinato la narrazione, anzi proprio l’esserci: uno spettacolo di bandiere americane sventolanti, aquile stagliate su lacerti di cielo glauco, rivoli di sangue giù dall’orecchio dello sceriffo. Poi, appunto, schermi dentro schermi: alcune scene di fotografi freneticamente scattanti perché l’evento s’incarni nell’immagine flagrante, sembrano uscite proprio dal film di Garland, come se il cinema fosse sempre avanti sulle cose, l’interpretazione delle «scritture», in anticipo sui fatti.

ORA, ESCE per le edizioni Bietti e la cura (meticolosissima) di Claudio Bartolini, il volume Rote Armee Fraktion, il numero diciotto della rivista «Inland», corredato dalla riedizione – con corpose aggiunte documentali che problematizzano ancora di più l’oggetto di indagine – del libro di Stefan Aust, Il gruppo Baader-Meinhof. Storia della Rote Armee Fraktion. Si tratta di un vero e proprio tomo di quasi quattrocento pagine, impressionante in quanto a capacità di approfondimento, in cui, attraverso una gamma di saggi che vanno dalla storia della banda armata a quella delle immagini tra anni Sessanta e nuovo millennio (vi compare anche una «primizia» su The Revolution Is My Boyfriend di Bruce LaBruce a firma di Pier Maria Bocchi e, nell’articolo di Gianluca Casadei, allusioni ai modi, alla moda mediante cui «apparivano» i terroristi, insieme a contributi propedeutici come quelli di Steccanella, Meale, Mancino, Berardini, Sozzo ecc.) si ricostruisce il percorso eversivo del gruppo terroristico tedesco, la cosiddetta Raf che rimarrà attiva fino agli anni Novanta grazie alla cosiddetta terza generazione.

GIÀ A PARTIRE dal 1967, era il 2 giugno, cioè dalle proteste studentesche contro lo scià di Persia e il governo della Germania Ovest che in quei giorni ospitava nella Berlino occidentale il capo di uno dei regimi più repressivi, quello iraniano, considerato non troppo diversamente da quello nazista. Del resto l’idea di una continuità tra il passato macabro tedesco e la politica (imperialista, capitalista, sperequativa) della Germania Ovest nel secondo dopoguerra era alla base del pensiero di molti intellettuali e artisti (che oscillavano tra anarchismo, antimilitarismo e convinzioni comuniste e socialiste declinate in varie forme di umanitarismo) e fu una delle matrici da cui la lotta da dialettica divenne, per i più integralisti e veementi, lotta armata. Quel 2 giugno nel tentativo di sgomberare i manifestanti l’ispettore di polizia in borghese Karl-Heinz Kurras uccise lo studente Benno Ohnesong, a cui attivisti come Gudrun Ensslin, il suo compagno Andreas Baader, la giornalista Ulrike Meinhof, l’avvocato Hors Malher, risposero con articoli e dichiarazioni che rivendicavano la difesa armata contro quella che consideravano una vera e propria offensiva. La Raf ufficialmente nacque il 14 maggio del 1970 e da lì la storia – ricostruita dal libro di Aust tanto più in questa versione ampliata – si dipana in azioni eclatanti tra cui nel 1972 l’irruzione nel villaggio olimpico di Monaco.

La redazione consiglia:
La Germania e i fantasmi della StoriaVicende di cui questo numero di «Inland», puntellando il volume di Aust, constata la natura icastica, plastica: la tendenza a farsi dimensione e racconto visuale. Non solo film (moltissimi, di cui il volume dà pienamente conto) girati sull’argomento – da Germania in autunno ad Anni di piombo fino a La banda Baader-Meinhof di Uli Edel –, ma proprio la tensione a rispecchiarsi nelle immagini (fotografiche, televisive, cinematografiche) da parte dei principali esponenti della Raf (come sottolinea il saggio di Charlotte Marincola) se si pensa che Andreas Baader ed Holger Meins erano studenti di cinema negli anni Sessanta (animati da sogni registici) e Meins tra l’altro uno degli operatori più talentuosi in circolazione; Ulrike Meinhof ha girato dei documentari di denuncia e protesta dotati di una certa congruenza cinematografica; Gudrun Ensslin è stata attrice nel cortometraggio Das Abonnement di Ali Limonadi, datato 1967. Era una lotta, la loro, che voleva incarnarsi alla complessione, alla vita delle immagini, dentro le prerogative inventive, scritturali riconosciute alla macchina da presa, sia pure contraddicendo poi, per eterogenesi dei fini, questi presupposti creativi, spostandosi su inferenze mortifere e suicidarie, su un freddo, raggelato dogmatismo che andava a corrodere il concetto stesso e lo spessore linguistico della tragedia, quella nietzschiana alla base del segno espressivo, del simbolo, della mitopoiesi, che invece Edgar Reitz e Margarethe Von Trotta cercheranno di recuperare nei loro film ispirati a quegli avvenimenti. Scriverà Ulrike Meinhof dal carcere in una lettera a una sua amica: «Sono lontana mille miglia da categorie come quella della tragedia e del destino».