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Una cordiale voce istriana: Sambi e il culto del sonetto

Una cordiale voce istriana: Sambi e il culto del sonettoGino Rossi, Canale con vela a Burano, olio su cartone, 1912-’13

Poeti italiani di frontiera Nato a Pola nel 1968, Mauro Sambi, oggi docente di chimica a Padova, padroneggia i maestri del Novecento e traduce Shakespeare. Tutti i suoi versi in Quel tanto nella voce, da Ronzani

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 20 marzo 2022

Sono abbastanza sicuro che Quel tanto nella voce (Ronzani Editore, pp. 368, euro 28,00), l’elegante volume dove sono raccolti tutti i versi che Mauro Sambi ha scritto e pubblicato, con signorile discrezione, dal 1994 a oggi – il suo ‘pianeta sul tavolo’ (per dirla con Wallace Stevens, un poeta da Sambi molto amato) – sorprenderà anche lettori ben più aggiornati, più fedeli di me alla poesia contemporanea. Nato e cresciuto a Pola nel 1968, nella comunità italiana autoctona dell’Istria, Sambi non ha potuto ‘vivere’ l’italiano attorno a sé – respirarlo liberamente – fino all’87, quando si è trasferito a Padova, dove ora è professore di chimica inorganica all’università. A questo straniamento della lingua allude, senza dubbio, il verso di Saba posto in epigrafe: «O mio cuore dal nascere in due scisso». Che tocca anche il conflitto (che non può non esserci stato, anche se ora appare quasi affatto risolto) tra professione scientifica e vocazione letteraria; e, credo, va a scandagliare anche un altro, ancor più profondo senso di sdoppiamento interiore, di perenne, segreto smottamento.
Non per nulla, il terzo libro d’un autore dalla voce così cordiale, agli antipodi del solipsismo, figlio, marito e padre – la voce di un uomo che vien voglia di frequentare –, Diario d’inverno (2015), è dedicato, senza alcun compiacimento, «Al Doppelgänger». Al punto che la magnifica sequenza iniziale di sonetti che scandiscono le tappe di un viaggio in Inghilterra con un accompagnatore mai nominato – ma che si conferma capace di assolvere al «compito forse più / delicato dell’amicizia» – potrebbe anche essere il diario di un pellegrinaggio in solitudine. Come forse è inevitabile di ogni autentico libro di poesia.
Padrone di versi, forme e motivi della tradizione, consapevole che sarà la fedeltà ai maestri (oltre a Saba, il primo Zanzotto, direi, e Giotti e Giudici fra gli italiani; e poi Rilke, Hardy, Eliot, Auden…) a darti «quel tanto nella voce / che non controlli, che ti fa riconoscere», Sambi sembra ricorrere naturalmente al sonetto in «quasi-rima», presente in tutte le sue raccolte. Fin dal libro d’esordio, Di molte quinte vuote (1998): dove a vari componimenti originali (Come un ramello… ha la grazia lieve di una anacreontica) è accostata una splendida traduzione del sonetto LII di Shakespeare. Come ad anticipare, probabilmente non ad arte, il Quaderno inglese: una serie di altri quindici sonetti scespiriani (in quasi nessun caso riesco a pensare a versioni più efficaci, sia per fedeltà all’originale sia per autonoma resa poetica) suggellata, molto a sorpresa ma non per vezzo, da una traduzione, altrettanto forte, di un «sonetto sacro» di John Donne: «La sofferenza – ora mi pento – fu il mio peccato: / poiché ho sofferto tanto devo soffrire ancora. / L’ubriacone idropico e il ladruncolo accorto, / il libertino lubrìco e il vanesio orgoglioso / hanno il ricordo di gioie passate a conforto / dei mali che verranno. A me nessun riposo / è dato – ché a lungo, veemente, il dolore è stato / l’effetto e la causa, la punizione e il peccato».
Così però rischio di non rendere giustizia alla varietà di tono e temi di un libro – un ‘pianeta’ – dall’articolazione molto complessa e di tanto raffina tessitura musicale, dove anche l’indice, le note, dediche, spazi e disposizione dei trattini significano e sono curati con antica amorevolezza. Voglio segnalare almeno il «filo di ironia» che lega le tre parti del poemetto eponimo della seconda raccolta, L’alloro di Pound (2009); l’attacco enigmatico, colloquiale e sublime al tempo stesso, di Diario d’inverno («Non sapevo, non ho mai letto / di questa singolare metamorfosi / del riccio che diventa / – nella notte di freddo senza luna – / camoscio solitario / il nomade monarca delle vette»); il crescendo sommesso dei versi «per nozze di E. e G.», Estate di settembre, con quel suo delicato ma fermo insegnamento (che vale per la vita coniugale come per la poesia): «non serve / nuotare controcorrente – sapienza / elementare è fidarsi del vento».
Questa breve sequenza – non l’unico epitalamio nel volume – si conclude con un componimento in dialetto istroveneto, che serve anche da giuntura con l’ultima sezione del libro, De note, tutta scritta in dialetto, come nell’intimità di un buio domestico, «ne la pase de prima / che ’l giorno cominci». Sto citando dall’ultima poesia, ormai quasi De matina – «Me vardo intorno in piedi fermo / tra la cusina e la sala e penso: / tuto quel che xe qua dentro / presto o tardi no’ sarà più. // Penso a i fioi che dormi / de sora, ma sensa paura; penso / grassie per ’sto atimo de pien / tra niente e niente» –, una aubade dove pienezza e caducità sono sentite e espresse con la stessa perfetta misura del ‘crepuscolo’ di Thomas Hardy – At Day-Close in November («La luce meridiana si consuma…») – tradotto o imitato duecento pagine prima: «Le foglie che ingialliscono il tramonto / trascorrono negli occhi come macchie; / piantai gli alberi ch’era la mia estate / e adesso nascondono il cielo. // E i bimbi che scorrazzano qui intorno / non sanno immaginare che vi è stato / un tempo in cui questi alberi non c’erano, / che non ce ne saranno più, un giorno».

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