Una consapevole misura del caos
Lorenzo Calogero in piazza Duomo a Milano nel 1954
Cultura

Una consapevole misura del caos

In versi L’editore Lyriks propone la raccolta «Un’orchidea ora splende nella mano. Poesie scelte 1932-1960» e rilancia la figura di Lorenzo Calogero
Pubblicato 2 mesi faEdizione del 14 settembre 2024

L’estetica della ricezione di Hans Robert Jauss ci ha insegnato che il lettore di ogni tempo ha il suo «orizzonte di attesa» nella valutazione di un testo. Esso è tanto più mutevole e ampio quanto più l’efficacia del testo predetto si presenta al fruitore in tutto il suo «scarto innovativo».

È UN’OTTIMA TEORIA per comprendere la fortuna (e la sfortuna) di grandi autori nel corso delle epoche, ma può essere utile anche per qualche insperata riscoperta. È il caso del poeta calabrese Lorenzo Calogero, nato a Melicuccà nel 1910, di cui l’editore Lyriks propone un vasto collected, Un’orchidea ora splende nella mano. Poesie scelte 1932-1960 (prefazione di Aldo Nove, traduzione inglese di John Taylor, con un’opera di Emilio Isgrò, a cura di Nino Cannatà, pp. 570, euro 22). An Orchid Shining in the Hand: Selected Poems 1932-1960 era già stato pubblicato a New York per Chelsea Editions nel 2015, ma in questa riedizione, pensata per il pubblico italiano e illustrata con foto, autografi e disegni dello scrittore, si aggiungono quarantacinque liriche tratte dai Quaderni di Villa Nuccia e alcune riflessioni in versi e in prosa provenienti dai manoscritti del 1936 e del 1957.
Le attestazioni di stima ricevute da Calogero, specialmente post mortem – è scomparso nel 1961 in circostanze mai chiarite –, sono ragguardevoli: «Lorenzo Calogero, con la sua poesia, ci ha diminuiti tutti» (Giuseppe Ungaretti); «il più grande poeta italiano del ’900» (Carmelo Bene); «dotato di un reale temperamento poetico» (Eugenio Montale).
Eppure, qualcosa non ha funzionato nel processo, per così dire, di «trasmissione» della sua opera. Dopo una forte attenzione attorno al «nuovo Rimbaud italiano» nei primi anni Sessanta, i fuochi dell’entusiasmo si spengono fino all’oblio: oblio che persiste tutt’oggi nonostante i circa ottocento quaderni rinvenuti e non ancora studiati nella loro interezza (il corpus inedito conta quindicimila versi). Dunque, di materiale d’approfondimento per testare l’«efficacia» jaussiana ce n’è a iosa.

MA CHE POETA è stato Calogero? Aldo Nove gli riconosce l’impersonalità della «Poesia stessa» che «mette in scena simultaneamente l’io e il tu, il noi e il voi»: in effetti, il soggetto lirico tende a slargarsi in percettibilità multiple, dislocate. «Ho fatto un brutto sogno stanotte. / Mi pareva che una foresta / perlata di laghi m’invadesse. / Tremuli queruli fanciulli / giocavano sul mio guanciale». O ancora: «Si confonde questo meraviglioso plenilunio. // Lo spazio concavo era / una meravigliosa uccelliera, / dove a un nido, ad un bacio ignorato / fluivano meravigliosi i fiumi, // di cui vedevamo la meraviglia da lungi / nel nostro silenzio ch’era fame». Gli stati coscienziali sembrano esteriorizzarsi in un «inarcarsi» dell’essere, in un movimento «musicale» che tenta di scoprire la «realtà di sogno», il «significato recondito delle cose». Insomma, poesia come conoscenza.
Calogero, cresciuto in un ambiente cattolico (sono note la corrispondenza con Carlo Betocchi e l’interesse per la rivista «Il Frontespizio»), è un autore di chiara ascendenza modernista: tardosimbolista, onirico, esorcizzante, il verso calogeriano acquista nel tempo (a partire dalla raccolta Ma questo, 1950-1954) una calcareità enigmatica e sentenziosa, à la Wallace Stevens: «Gli estri, le cose esatte, / le monotone cose poi, ma questo / puoi estendere alle nuvole, / quando, rarefatto il tempo, il vuoto / è un rudere di passaggio». La sintassi si marmorizza in forme ruvide, tonalmente disarticolate. Se «l’arte svela il tormento della vita e svelando lo rende sanabile», il poeta è chiamato a dare una «struttura» alle proprie ossessioni. Fondanti, in questa lirica destinante e arcuata, sono quindi vocaboli come «anima», «astro», «Dio», «desiderio».

DALL’EFFUSIONE decandente-pascoliana che contraddistingue sillogi quali Poco suono (1933-1935) e Parole del tempo (1931-1938) si passa così a una più consapevole misura del caos e del sovvertimento. Largo spazio è dato al tema della morte, corteggiata e intessuta di richiami dall’aldilà. «Ma non m’interessa più della vita. / Oggi mi curo della morte. / Fra poco e alla svelta morrò, / perché anche tu con me sul lago / verrai domani. E la pelle è adunca / o si screpola oppure sbadiglia».
Tuttavia, Calogero non è soltanto un blanchottiano cantore della notte, dell’inquietudine, di uno scacco acre: «Bisogna ritornare ai più piccoli valori morali ed edificare su di essi – se si vuole ricostruire secondo un modello di salvezza il mondo e far sì che esso adesso sia uno specchio di salvezza».
È proprio il vigoroso ethos – «una luce continua», abbagliante – conferito da Calogero alla poesia che fa della sua lezione un talismano di resistenza esistenziale. Ecco cosa si può leggere in un testo inedito: «Nella poesia trovo le origini della pace e della calma / dopo che conosco lei non voglio conoscere più nessuno».

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