Il 30 ottobre scorso il presidente francese Emmanuel Macron ha inaugurato con gran fasto nel castello di Villers-Cotterêts (a cento chilometri da Parigi) la Cité internationale de la langue française, che aveva promesso sin dal 2017 candidandosi al secondo mandato. Tutti gli elementi dell’evento contengono importanti allusioni simboliche e politiche.

Capolavoro del Rinascimento abbandonato da tempo e magnificamente restaurato in soli tre anni, il castello fu residenza del re Francesco I (1494 -1547) ed è il luogo da cui il sovrano emanò nel 1539 l’editto che stabiliva per la prima volta che gli atti ufficiali di tutto il Paese fossero scritti in francese e non in latino. Inoltre, la nuova struttura non si chiama «museo» bensì «città», per dar l’idea di un luogo vivo e pulsante. Non guasta inoltre il fatto che Villers-Cotterêts sia la città natale di Alexandre Dumas padre, uno degli scrittori più amati del Paese.

DATE QUESTE PREMESSE, non sorprende che la Cité sia stata progettata in grande, anche perché a quest’opera Macron (nato ad Amiens, poco lontano) vuole legare il suo nome, seguendo la linea di diversi dei suoi predecessori (Pompidou col Beaubourg, Mitterrand con la Piramide del Louvre, Chirac col Musée de Branly). Il castello si trova in un domaine di ventitremila metri quadrati, dispone di duemila metri quadrati di esposizioni e milleseicento di percorsi interni, un grande auditorium e dodici residenze per artisti e ricercatori. Annuncia inoltre un programma di spettacoli, eventi e mostre. Si tratta dunque di un gesto di politica culturale di gran peso e importanza.

Non per caso nel discorso di inaugurazione (durato un’ora, molto accorto e studiato) il presidente ha inserito diversi passaggi politicamente impegnativi aprendolo su un vasto orizzonte. Non solo ha insistito sul fatto che il francese è una «lingua di libertà e di universalismo», che «fonda l’unità della nazione», ma non ha schivato il riferimento al passato coloniale, oggi più che mai fonte di gravi tensioni. La diffusione della lingua nel mondo – ha ammesso – è avvenuta anche «con mezzi di costrizione», ma coloro a cui è stata imposta «a loro volta sono riusciti a dominare la lingua dei dominatori fino a trasformarla in strumento di emancipazione». In questo modo le ex colonie sono diventate oggi gli anelli della cosiddetta «francofonia».

Questo termine designa la rete mondiale dei Paesi in cui il francese è oggi usato come lingua ufficiale o sotto forma di creoli, residuo incancellabile della lunga epoca imperiale.

IL CONCETTO DI FRANCOFONIA vuol convertire le violenze del passato in virtuosa cooperazione culturale permanente. La rete della francofonia è oggi un inestimabile sostegno per il mercato librario e per la circolazione di accademici, intellettuali, scienziati e imprenditori. Chi si muove sui suoi sentieri dispone di un immenso vantaggio competitivo, perché non ha bisogno di usare lingue diverse dalla propria ed è sostenuto da una solida organizzazione di Stato.

Per questo la Cité non espone solo documenti della storia del francese metropolitano, ma anche espressioni del francese degli altri, come gli scrittori che, tanto dalle ex-colonie quanto dai Dipartimenti d’Oltremare (che vanno dall’Atlantico al Pacifico: Martinica e Guadalupa, Mayotte, la Riunione e finanche le lontanissime Tahiti e Nuova Caledonia), lo hanno usato come propria lingua. Non si tratta di gente di poco conto: basti pensare a Léopold Sédar Senghor (che fu poeta e poi presidente del Senegal) o a Frantz Fanon (l’autore di I dannati della terra).

OLTRE A ESPORRE documenti capitali della storia di Francia e della sua lingua, come l’editto di Francesco I o la raccolta di dizionari, un campo in cui la Francia ha un’insigne tradizione, la Cité esibisce una varietà di invenzioni coinvolgenti. Per esempio, alcuni giochi interattivi permettono di testare il proprio dominio dell’ortografia, un tema che ai francesi sta molto a cuore. A un italiano questo fatto può sembrare strano, ma l’ortografia del francese, complicata com’è, è per tutti una sfida permanente. Non per caso, la Francia è il solo Paese al mondo in cui da decenni si svolga con enorme successo un concorso annuale di… dettato.

Animato dapprima in tv da Bernard Pivot (l’inventore di Apostrophes, famoso programma sui libri andato in onda tra il 1975 e il 1990), il 4 giugno 2023 il dettato si è svolto all’aperto sugli Champs-Élysées, con la partecipazione di più di cinquemila persone.

Esibendo una non comune duttilità, Macron si è lasciato intervistare dalla blogger Cécilia Jourdan, che si è fatta una fama negli Usa per le sue brevi lezioni di francese via TikTok, prestandosi a ripetere come si pronuncia il suo cognome (che contiene una vocale nasale difficile), a confessare che la sua parola preferita è saxifrage («sassifrago»!) e che la parolaccia che usa più spesso è merde.

Su questa linea di spiritosa ma vigile attenzione all’attualità, il presidente ha toccato anche altri temi sensibili, come la cosiddetta «scrittura inclusiva». Si tratta di un sistema ortografico «non discriminatorio» creato anni fa che, dopo aver circolato informalmente nei social, si è diffuso via via fino ad arrivare agli usi scolastici e ai documenti ufficiali. Al posto del maschile generico les étudiants («gli studenti e le studentesse») si ha allora les étudiant.e.s (con punti di separazione), dove la e indica il femminile e la s finale il plurale.

ALLA STESSA MANIERA, invece di citoyens «cittadini», citoyen.ne.s, con la stessa logica. La questione si è fatta gradualmente scottante per via la veloce crescita della tematica woke, che in questo momento in Francia è accesissima. È quindi con un certo sprezzo del pericolo Macron ha respinto in blocco la scrittura inclusiva: «in questa lingua – ha sostenuto – il maschile è neutrale (cioè, étudiants va benissimo per indicare ’studenti + studentesse’ e non c’è bisogno di aggiungere puntini in mezzo alle parole o trattini o altre cose che rendano tutto incomprensibile»).

Tutti i temi del discorso di Macron, e la creazione stessa della Cité, stanno suscitando polemiche animatissime. Noto per il suo disinvolto uso di parole inglesi, il presidente è stato accusato da alcuni accademici di non esser la persona adatta a difendere il francese. Il rifiuto della scrittura inclusiva gli ha provocato la reazione anche dura del mondo woke. Macron è troppo astuto per non averlo previsto. Probabilmente era proprio quel che voleva: «Le polemiche – ha suggerito Jack Lang, l’ex ministro della cultura ancora potentissimo – fanno vivere le cose».