Visioni

Una cartolina per immaginare il futuro

Una cartolina per immaginare il futuroRineke Dijkstra (fotografa olandese) Kolobrzeg, Poland, July 26 1992

FemmineFolli Una pausa forzata per riscoprire un po' di piacere nella pace, sottili peripezie zen mentali che aiutano però a pensare

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 4 febbraio 2016

Dal letto ho fatto in modo di avere alla mia sinistra un pannello di sughero dove appendo, ciclicamente, delle foto ricordo. Non tutti stampano ancora scatti digitali su supporto cartaceo, a me sembra un vezzo ineludibile per godere del privilegio dell’osservazione dello scandire del tempo. Spesso si tratta di immagini estive, marine, sono tutti più belli sotto il sole, soprattutto i miei familiari. Da giorni, e per giorni, sono costretta a casa, spesso supina, da una polmonite occulta che stentava a dichiarare il suo nome (è stata stanata solo da una tac total body). Ma, si sa, da casa si possono fare un sacco di cose: si legge, si studia, si scrive, si vedono film. Soprattutto si riflette. Sulle buone cose e sulle cattive. Su chi si è e su chi si vorrebbe essere. Sul comportarsi in maniera corretta o arrogante, coerente o impaziente. Si smette di lottare e ci si abbandona alla malattia, non in senso negativo «lasciatemi morire in pace», piuttosto la malattia che diventa pretesto dell’anima di riscoprire un po’ di piacere nella pace.

Per una freak controller come me, incapace a delegare manco di una briciola, è di certo un esercizio vigoroso sullo scuotimento interiore delle priorità. Quindi tra queste peripezie zen mentali mi ritrovo a voltare il capo a sinistra e ad osservare una immagine, anonima tra tutte, unica cartolina comprata in un museo berlinese e non fotografia di qualche parente o amico in posa buffa.

È ritratta una ragazza sola in costume olimpionico giallo. Lei illuminata artificialmente, il fondo un mare nordico più scuro, nella luce naturale a cavallo entre le chien et le loup. Pallida, emaciata, leggermente insalubre (e qui scatta un’immediata solidarietà). Corpo asessuato dell’adolescenza. Capelli lisci, sfibrati, tenuti dietro da un elastico, probabilmente di quelli gialli, da cucina. Posa sghemba, come se da un lato il corpo le pesasse qualche etto in più (l’esilità delle sue forme non fanno evincere un peso totale superiore ai 45 chili). L’equilibrio è incerto, un soffio di vento potrebbe inclinarla a destra come a sinistra, secondo le preferenze della corrente ascensionale. I piedi completamente ricoperti di sabbia, impanati, divenuti superflue calzature acquatiche.

Nulla la fonda al terreno, nulla la fa lievitare verso l’alto: la stasi le è insita, tra le minute ossa delle clavicole, nelle ginocchia valghe, nel bacino sporto in avanti: unica àncora affidabile, personale barattolo di spinaci alla Popeye. Dietro di lei il mar Baltico. Blu scuro. Gelido come ghiaccio. Salmastro in maniera vischiosa, avviluppante, tentacolare. Sembra faccia freddo. Fa freddo. Lei è nuda e io ho freddo per lei. Rabbrividisco. I suoi occhi mi parlano. «Mi piace la storia medioevale, quella degli intrighi, delle regine dei re e dei giullari, delle pozioni e dei pozzi. Non sorrido spesso, mai ai maschi, che però mi piacciono molto. Mia madre dice che dovrei essere più femminile, più docile, più gentile. Ma non mi viene. Dentro esplodo di gioia ma fuori non si vede niente. Sarà la timidezza».

Le gambe lunghe e un po’ storte la porteranno lontano ma non ora, ora è troppo presto, ora è porcellana fine, si scheggerebbe e non saprebbe dove trovare la colla giusta per aggiustarsi, finirebbe per chiedere aiuto alle persone sbagliate e magari a fare il bagno senza aver digerito il pasto. Provo pena per la sua giovinezza ma, al tempo stesso, tanta speranza. Non penso di sbagliare immaginando per lei un futuro felice (e, di sponda, in fondo in fondo, anche per me).

fabianasargentini@alice.​it

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