Una biografia… anzi quattro, ma in chiave controfattuale
Scrittori americani Frasi lunghe intere pagine, digressioni rigogliose, meditazioni profonde accanto a pensieri triviali, bozzetti di vita urbana, meticolose ricostruzioni storiche anni sessanta, picchi di eleganza alternati a un soliloquio edonistico: «4321», da Einaudi
Scrittori americani Frasi lunghe intere pagine, digressioni rigogliose, meditazioni profonde accanto a pensieri triviali, bozzetti di vita urbana, meticolose ricostruzioni storiche anni sessanta, picchi di eleganza alternati a un soliloquio edonistico: «4321», da Einaudi
Quello di Auster è il caso, nemmeno troppo singolare, di uno scrittore americano apprezzato molto di più in Europa (soprattutto in Francia, dove ha trascorso quattro anni in gioventù) che negli Stati Uniti. Forse perché, pur traendo ispirazione da «classici» americani come Poe e Hawthorne, la sua narrativa è stata spesso accostata al simbolismo francese e all’esistenzialismo. Non è un caso che i premi più importanti gli siano stati attribuiti in Europa: dal Prix France Culture de Littérature Étrangère nel 1989 al Premio Príncipe de Asturias nel 2006.
Negli anni Ottanta Auster ha saputo conciliare la sperimentazione postmoderna con il suo gusto inesauribile per l’affabulazione: Trilogia di New York (1985-87), L’invenzione della solitudine (1982) e Nel paese delle ultime cose (1987) hanno scavato un solco significativo e duraturo nella letteratura americana, sovvertendo in modo originale generi di culto come la detective fiction, il memoir e il romanzo distopico.
Una summa dell’autore
Ora, dopo alcuni romanzi non tutti riusciti e due libri memorialistici, Auster è tornato alla narrativa pura. Ma stavolta ha partorito, per sua stessa ammissione, «un elefante». Pubblicato da Einaudi nella traduzione, come sempre impeccabile, di Cristiana Mennella, 4321 (pp. 944, euro 25,00) è una gigantesca opera corale – un Bildungsroman che esplora ben quattro versioni dell’infanzia e dell’adolescenza del protagonista, Archie Ferguson; quattro vite che si svolgono in parallelo e che divergono come variazioni musicali su un tema prestabilito. La quinta vita – il tema iniziale – è proprio quella dello stesso Auster, riconoscibile in controluce attraverso allusioni e riferimenti obliqui. Ferguson è nato infatti il 3 marzo 1947, un mese esatto dopo il suo autore, e in ognuno dei suoi destini c’è la scrittura (sarà traduttore, giornalista, poeta o romanziere), la Francia (impara il francese e trascorre un periodo a Parigi) e la passione per il cinema, anch’essa condivisa con Auster.
Sin dal titolo – countdown che ricalca la struttura del romanzo – 4321 si presenta come una summa austeriana che sintetizza la carriera dell’autore proseguendone le riflessioni sul genere autobiografico: man mano che ci si avvicina alla fine le alternative diminuiscono e le possibilità si riducono. Auster ha cominciato il libro quattro anni fa, dopo il decesso per infarto del padre che gli ha trasmesso «un senso di morte improvvisa»: e se a quattordici anni, durante un temporale in montagna, a venir colpito da un fulmine fosse stato proprio lui, invece che il bambino poco distante? E se invece che alla Columbia si fosse iscritto a Princeton? E se…? Una serie di domande gli ronzano in testa e lo spingono a gettarsi a capofitto nel romanzo: «Volevo vivere per finire di scriverlo», ha dichiarato in una delle tante interviste rilasciate dopo la pubblicazione.
Abbracciando la dimensione «controfattuale», Auster rinnega il principio di non contraddizione e dà libero sfogo alla sua vena affabulatoria in un flusso narrativo inarrestabile: frasi-fiume che si estendono per intere pagine, digressioni ramificate, rigogliose e debordanti, meditazioni profonde accanto a pensieri triviali, bozzetti di vita urbana, meticolose ricostruzioni storiche, momenti di improbabile comicità (come quando Ferguson torna a casa e trova il nonno intento a sovrintendere alle riprese di un film porno), passi lirici o addirittura struggenti, svolte inaspettate della trama (la sorpresa più grande è nascosta nelle ultimissime pagine), tales within tales, poesie, brani di racconti, reportage… senza dimenticare gli immancabili riferimenti metaletterari, che si tratti di personaggi prelevati dai romanzi precedenti o dell’idea di Ferguson di esistere in un borgesiano Libro della vita terrestre, di cui a volte si sente una nota a piè pagina, mentre in altri momenti ha la sensazione di muoversi in un vasto mondo irreale, dove c’è «spazio abbondante per essere e non essere se stessi».
Scenografia fissa
Se le vite ipotetiche del protagonista possiedono uno statuto ontologico incerto, l’America degli anni Sessanta – con le lotte per i diritti civili, la guerra in Vietnam, gli omicidi politici, gli scontri studenteschi, le rivolte urbane – costituisce la scenografia fissa, sin troppo reale e dettagliata, contro cui Auster proietta i suoi molteplici personaggi.
Nel Complotto contro l’America Roth aveva riscritto la storia americana degli anni Quaranta in chiave ucronica, immaginando un presidente filonazista ed esplorando le conseguenze impreviste (ma fin troppo plausibili) sulla vita di se stesso bambino e sulla sua famiglia; in 4321 l’ucronia non è nella storia ma nelle vite possibili dello scrittore: per tutto il libro risuona la sempiterna «musica del caso», vera e propria ossessione riversata da Auster nel titolo di un suo romanzo del 1990 e che qui diventa una sinfonia a tratti assordante, impossibile da eludere e tanto meno da razionalizzare – come la barzelletta che apre il libro e che diviene «una parabola del destino umano e degli infiniti bivi che una persona deve affrontare lungo il cammino della propria esistenza». L’idea è forse non troppo originale (si pensi al borgesiano Giardino dei sentieri che si biforcano e al film Sliding Doors, fino al recente romanzo di Laura Barnett Tre volte noi), ma pur sempre molto suggestiva.
Per quanto indubbiamente variegato e nel complesso piacevolissimo da leggere, come tutte le opere mondo 4321 reca in sé i germi del proprio fallimento – primo tra tutti l’eccessiva lunghezza, che unita alla quadruplice struttura e alla scarsa differenziazione delle situazioni proposte rende alcuni brani inutilmente ridondanti. Nel passaggio da una sezione all’altra non è sempre facile tenere a mente le diverse varianti della trama (c’è chi recensendo il romanzo ha consigliato con una provocazione di leggere separatamente i capitoli relativi a ognuna delle vite di Ferguson – un po’ come suggeriva Cortázar a proposito del suo Rayuela – o addirittura di strappare e rilegare di nuovo le pagine in quattro libri separati).
Il demone affabulatorio
La scrittura di Auster sa essere suggestiva e raggiunge picchi di eleganza, ma a tratti sembra trasformarsi in soliloquio edonistico, specie quando l’autore indulge per pagine e pagine al suo demone affabulatorio, come nella (troppo) lunga ricostruzione delle rivolte studentesche alla Columbia, o nei resoconti (troppo) elaborati delle vicende e dei pensieri di personaggi secondari, che rischiano di distogliere l’attenzione dal nucleo narrativo principale. Viene da pensare che lo stesso Auster, da esperto e smaliziato storyteller, fosse ben consapevole del rischio e abbia deciso, a settant’anni suonati, di assumerselo responsabilmente; a metà esatta del libro fa dire al suo narratore: «Ferguson capì che il mondo era fatto di storie, così tante storie diverse che se le avessero riunite insieme in un libro, quel libro sarebbe stato lungo novecento milioni di pagine». Auster si è limitato a 944.
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