Una Biennale hard rock. L’inner song di Okwui Enwezor
Biennale Arte Presentato ieri il programma dell'iniziativa artistica veneziana
Biennale Arte Presentato ieri il programma dell'iniziativa artistica veneziana
Non sarà una Biennale mordi e fuggi quella che apre a Venezia il prossimo 9 maggio, in anticipo sulle date consuete, per solidarietà nazionale con Expo. 89 Partecipazioni nazionali, 5 i paesi presenti per la prima volta alla Mostra giunta ai suoi 120 anni di vita: Grenada, Mauritius, Mongolia, Repubblica del Mozambico, Repubblica delle Seychelles. Il curatore, Okwui Enwezor, nigeriano, direttore della Haus der Kunst di Monaco di Baviera e studioso di migrazioni e diaspore, ha in mente una Mostra «live», non preconfezionata, ma che si attiva e si compie in tempo reale: scenografie mobili, recital, proiezioni, canti, declamazioni, dibattiti. Un «parlamento di forme». È la Biennale performance. Enwezor ne ha dato un assaggio ieri in conferenza stampa: nel bel mezzo del suo discorso ha mandato in onda la registrazione della lettura ad alta voce pasoliniana di La Guinea (1962), con un pubblico esterrefatto per la presa di coscienza della distanza scavata fra il presente e la pratica della declamazione, fra il presente e la poesia. Mettersi in ascolto dell’arte chiede tempo. I «futuri del mondo» – il titolo della mostra è All the World’s Futures – stanno nel prendersi cura del tempo?
Venezia non ha una tradizione forte sull’arte performativa, se si eccettuano le due edizioni organizzate da Harald Szeemann – DAPERTutto, 1999; Platea dell’umanità, 2001 – e presiedute da Paolo Baratta al suo primo mandato. Due anni fa il Leone d’Oro come miglior artista a Tino Sehgal, «per l’eccellenza e la portata innovativa del suo lavoro che apre i confini delle discipline artistiche», deve aver lasciato il segno. Intanto Enwezor, scegliendo di accogliere espressioni artistiche inusitate, potrebbe favorire una federazione fra i settori della Biennale: oltre a Cinema, Arte e Architettura, ci sono infatti Danza, Teatro e Musica, ma spesso viaggiano tutti su binari separati, sono incomunicanti. Il suo profilo, poi, sembrerebbe rispondere a una diffusa esigenza di cambiamento. Oggi ci si interroga sul ruolo del curatore, contestando l’abitudine del fiancheggiamento all’artista e reclamando politiche della «militanza», del dissenso (Michele Dantini). D’altra parte si va in cerca di nuove formule espositive, fondate sull’impollinazione fra culture e ispirate a un impresario teatrale come Sergej Djagilev (Hans Ulrich Obrist). Dopo le Illuminazioni di Bice Curiger (2011), le forze interiori tese alla creazione enciclopedica di Massimiliano Gioni (2013), Enwezor potrebbe essere la figura giusta di drammatizzazione dello spazio artistico, intendendo l’opera come un evento dal vivo.
Ma per esprimere cosa? Per reagire come? Il curatore nigeriano prende a modello, da un lato, Il Capitale di Karl Marx, cioè la struttura e la natura del capitale, colte attraverso varie forme di manifestazione artistica e un programma di letture dal vivo dei quattro libri, recitals di canti di lavoro, letture di copioni, assemblee e proiezioni di film. Li ospiterà Arena, uno spazio al Padiglione Centrale dei Giardini concepito da David Adjaye in memoria di uno dei capitoli più significativi della storia della Biennale: il programma di eventi dedicato al Cile nel 1974 dopo il colpo di stato di Pinochet. Gruppi teatrali, attori, intellettuali fungeranno da mediatori culturali per favorire l’intervento del pubblico.
Gli artisti scelti da Enwezor, fra gli altri Abounaddara, Emily Kngwereye, Fabio Mauri, Hans Haacke, Walker Evans, Adel Abdessemed, Dora Garcia, Walker Evans, Tania Bruguera, Alexander Kluge, Steve McQueen, Rirkrit Tiravanija, Robert Smithson, Inji Aflatoun, Mathieu Kleyebe Abonnenc, Chris Marker, Olaf Nicolai (Un volto, e del mare/Non consumiamo Marx, dalla composizione di Luigi Nono), accomunati da un’impronta politica del mestiere, daranno voce a una visione «fresca» del capitale, dalle predazioni dell’economia politica alla rapacità dell’industria finanziaria, dal crescente sistema di disparità all’indebolimento del contratto sociale. Di fatto 159 lavori su 400 saranno nuovi. Nel pluralismo si esprimeranno anche le forze e le tensioni artistiche nei continenti meno rappresentati da padiglioni nazionali e meno noti. Emergerà il loro inner song, la particolare sensibilità al tema proposto.
Se Il Capitale è il filo conduttore per gli artisti, l’Angelus Novus (1920) di Paul Klee nella descrizione di Walter Benjamin lo è per gli spettatori. Enwezor istruisce il pubblico a una lettura incredula dell’incredibile: «vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove a noi appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta» (Benjamin). L’allegoria del filosofo è una sorta di dispositivo di pensiero del panorama mondiale attuale, che appare in frantumi e nel caos, terrorizzato e perciò instabile. Spunto poco originale, Benjamin, tanto di moda da risultare scontato. Ma forse Enwezor, a differenza del filosofo, avrà notato che nel quadro di Klee quel futuro che attrae l’angelo è la profondità dell’immagine. I «futuri del mondo» stanno nella profondità dell’immagine.
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