Una bella «cura» contro il capitalismo
Femminismo Nelle vite umane distrutte dalla crisi, il deficit di relazioni pesa come quello di beni. Perciò la «cura» è la pratica che riapre il conflitto tra capitale e vita
Femminismo Nelle vite umane distrutte dalla crisi, il deficit di relazioni pesa come quello di beni. Perciò la «cura» è la pratica che riapre il conflitto tra capitale e vita
Una crisi si aggira per l’Europa. Allargando la forbice tra chi ha e chi non ha, produce non solo disoccupazione e precarietà, ma disorientamento, infelicità senza desideri. L’economia di mercato, nella sua piegatura neoliberista paralizza, anzi costringe (e convince) ad adeguarsi all’esistente quando non genera un senso di colpa violento: sì, siamo noi greci, italiani, spagnoli, le sciagurate «cicale» che hanno gonfiato il debito pubblico.
Così il vocabolario al quale attingere come abitanti di questa Europa, scivola nel rancore; è dettato dalla paura. Invece di azzardare una pratica, invece di difendere determinati interessi contro altri interessi, invece di puntare su questa politica e non su quella, ci barrichiamo dietro un discorso generico che non va oltre lo spread, oltre i sondaggi, oltre le cifre snocciolate dall’Istat.
Il fatto è che le tante manifestazioni di disagio e di rabbia sono riconducibili a una stessa matrice: sussunzione delle vite al capitale. Di qui la macrocontraddizione tra forma globale del capitalismo e le nostre individualità di donne e singoli uomini. Veramente, un dilemma brutale. Che attanaglia l’Europa, che spazza via qualsiasi orientamento simbolico, il discorso per valorizzare l’individuo che interagisca con gli individui in quanto comunità. E se, al contrario, partissimo da noi, dalle pratiche che sperimentiamo, dalla trama di relazioni che ci garantisce legame sociale?
Consideriamo indispensabile una trasformazione radicale nelle relazioni tra uomini e donne, con la natura, con la vita vivente. Occorre guardare, interrogare le molte, tante, diverse esperienze messe in campo (dai Gas al Commercio equo e solidale, al microcredito, agli sportelli di aiuto, al co-housing), volte a creare legami tra le persone, a costruire spazi di libertà e non di pura sopravvivenza. Sempre che siano pratiche trasformative e non solo reazioni alla crisi.
«La cura», abbiamo pensato in questi anni del nostro lavoro politico, può diventare «garante della qualità dei rapporti e dei legami». Per questo vogliamo che sia il nuovo paradigma della convivenza.
Tuttavia, l’Europa nella globalizzazione soffre di un progressivo deficit «di cura». A donne e uomini migranti, del cui lavoro ha bisogno – proprio nell’ambito della assistenza del corpo, del sostegno quando è in gioco la fragilità, la debolezza – non mostra il volto dell’accoglienza, non offre ospitalità. Piuttosto, alza il muro dei divieti, dei respingimenti, del razzismo. Anche verso gli abitanti di questa unione di paesi, l’Europa ha assunto un volto ostile; prescrive rigore ed austerità, chiede sacrifici. E diviene responsabile del peggioramento delle condizioni di esistenza per milioni di europei.
È stata distrutta l’immagine calda, carica di promesse e di futuro, costruita sulla realtà del welfare e dei diritti. Sul compromesso tra capitale e lavoro che ha contrassegnato il nostro continente nella seconda metà del Novecento. L’Europa della cittadinanza sociale, della redistribuzione della ricchezza, della partecipazione attiva. In forme diverse, attraverso conflitti e negoziazioni, la politica aveva incorporato «la cura», rendendola però funzionale agli assetti del potere, nei rapporti tra i sessi e nei rapporti sociali. Se adesso leggete il giornale, guardate la televisione, camminate per le strade, infiniti sono gli esempi di incuria che saltano agli occhi.
Non possiamo adeguarci all’incuria ma su questo terreno vanno aperti i conflitti: per dire che le cose non stanno, non devono stare così. Vogliamo che le cose cambino. Ecco, se «la cura» è il paradigma della convivenza, secondo noi rappresenta uno strumento per contrastare l’attuale ordine economico e politico.
Certo, è difficile persino menzionare la cura. Fa ostacolo il senso comune che la riconduce alla dimensione opposta: della conciliazione che funzioni da supplenza e rimedio all’egoismo sociale, al venir meno della politica. Tra uomini e donne dunque finisce spesso in un tira e molla per una migliore spartizione dei posti, del potere, con la negazione-neutralizzazione della differenza. A scapito del desiderio femminile e maschile. L’aspetto più insidioso della torsione della parola «cura» sta nel riproporre l’immagine femminile di dedizione. In una sorta di valorizzazione delle «qualità» di un sesso, quasi fossero innate e obbligato ne fosse l’esercizio.
L’Europa aveva confezionato un compromesso che generalmente comportava doppia presenza, doppio lavoro, doppia identità. Promozione sì della emancipazione e parità, con l’inserimento nel mercato del lavoro e nella sfera pubblica, ma perpetuando il ruolo femminile nel privato, con il lavoro invisibile, e i nuovi compiti di mediazione tra famiglia e servizi sociali. Eppure «la cura» – non ci stancheremo di ripeterlo – non va misurata con il metro economicista, schiacciandola sul piano del lavoro domestico che pure è mal retribuito (oppure per nulla retribuito), tralasciato e svalorizzato. C’è una qualità non presa in considerazione dai servizi, dalle istituzioni, dal lavoro retribuito. L’abbiamo definita «resto» e quel «resto» fuoriesce dai protocolli di cura, dallo scambio monetizzabile.
«La cura» tocca la sfera di riproduzione della vita: è il lavoro del vivere. Sarebbe però un errore separarla di netto dalla sfera produttiva. Il come e il cosa si produce sono interrogativi che ci riguardano. Intanto, il compromesso europeo ha diffuso un modello che, nelle sue molteplici contraddizioni, continua ad agire. Oggi c’è uno schieramento che vorrebbe appropriarsi del «di più» della cura femminile senza riconoscerla, depotenziandone la carica di trasformazione simbolica e sociale. E puntando sulla disponibilità delle donne a farsene carico. D’altronde, a quel modello si era ribellato il femminismo degli anni Settanta.
La sfera della assistenza alle persone si è ampliata ed è strutturata su dimensioni internazionali. Creando nuove gerarchie e costi emotivi, psicologici e sociali tra donne e tra uomini (basta pensare ai rapporti tra badanti e anziani); tra migranti e native; tra differenti identità, a seconda dei paesi di provenienza. Con il paradosso che, mentre le nostre società non riescono a privarsi dell’aiuto dei e delle migranti, poi sfogano contro di loro, veri capri espiatori, il risentimento sociale prodotto dalla crisi, strumentalizzato dalle destre populiste.
Per tutto questo, di fronte alla crisi e al disorientamento dell’Europa, la modificazione dei rapporti tra uomini e donne non può misurarsi con il numero – tot uomini e tot donne – e la spartizione delle posizioni apicali. Sappiamo che il cambiamento richiede la capacità di combinare forza simbolica e pratiche (le perle della «cura») radicate nei contesti ma bisogna anche avere la baldanza di ribaltare il patrimonio di idee e di pratiche accumulato e che oggi, per quanto noi femministe gli siamo affezionate, per quanto siamo gelose della nostra memoria e storia e della strada percorsa, rischia di trasformarsi in un imprigionamento ideologico, in un pregiudizio che blocca e impedisce di cercare ancora.
Perciò, la frase «ce lo chiede l’Europa» va rovesciata. Siamo noi che chiediamo all’Europa di diventare più vivibile.
Non ci interessa un astratto modello di società ma dal momento che il deficit di relazioni pesa quanto il deficit di beni, oggi si tratta di pensare alla «cura» come alla pratica che riapre il conflitto tra capitale e vita. Pensarla nel suo essere base costituente delle attività umane, di uomini e donne, che senza quella attitudine e capacità non avrebbero modo di stare al mondo. Liberarla dalle pastoie delle costruzioni sociali e simboliche che ne hanno depotenziato il significato e ostacolato la forza di cambiamento, è il positivo conflitto politico che le donne possono aprire, a partire dal modo in cui hanno ereditato il significato della cura.
*** Il gruppo delle femministe del mercoledì (Fulvia Bandoli, Maria Luisa Boccia, Elettra Deiana, Letizia Paolozzi, Bianca Pomeranzi, Bia Sarasini, Rosetta Stella, Stefania Vulterini) invita a discuterne il dieci maggio alle 10,30. Saranno in dialogo con noi Andrea Bagni, Alisa del Re, Ida Dominijanni. Alla Città dell’Altra Economia-Largo Dino Frisullo (Testaccio)- Roma
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