Una banda irrequieta di resistenti agli ordini, tra campagne e boschi
Narrativa «Troncamacchioni», l'ultimo libro di Alberto Prunetti: una favola nera e tragi-comica, edita da Feltrinelli
Narrativa «Troncamacchioni», l'ultimo libro di Alberto Prunetti: una favola nera e tragi-comica, edita da Feltrinelli
È possibile costruire una tragedia popolare, senza attingere ai registri comici e picareschi e costruendo una vera e propria epica? Questa è la sfida che affronta Alberto Prunetti in Troncamacchioni (Feltrinelli, pp. 156, euro 16).
DOPO AVER MESSO IN FILA una trilogia working class, principiata da Amianto, che ha riaperto il confronto tra letteratura e mondo del lavoro, Prunetti riprende in mano gli appunti di una sua opera ancora antecedente e si cimenta di nuovo con archivi e testimonianze per riscriverla, sulla scorta di maggiore esperienza e più strumenti di ricerca.
La storia, anzi le storie, si svolgono tra la prima guerra mondiale e l’avvento del fascismo, negli stessi anni in cui un gruppo di ribelli (anarchici, comunisti, disertori) decide di darsi alla macchia per sottrarsi alla trincea e al massacro bellico per dare vita a una specie di banda che agisce nelle campagne e nei boschi del grossetano e nelle frazioni di Massa Marittima. È una vicenda di uomini, ma ci sono anche donne altrettanto decise rivoluzionarie e consapevoli che le cronache dei giornali dell’epoca relegano quasi a macchiette e alle quali Prunetti dedica una specie di interludio che affronta proprio il tema della rimozione della storia al femminile.
Per capire il clima merita citare il catalogo dei nomi diffusi mi all’epoca, che rendevano ogni registrazione all’anagrafe un brivido per i rappresentati delle regie istituzioni: «Atea, Comunarda, Darvin, Chiara Vera Atea, Giordano Brunone, Anarchino, Baconina, Ilicce, Lenina Socialina, Marse, Proletaria, Sovietta, Comevoglio Libero, Guerriglio, Maratte Danton, Ribella, Robespierrina, Vanda e Lismo, che son sorella e fratello, come anche i trigemellari Rivo, Luzio e Nario. Per poi chiudere in trionfo con Scioperina». E ancora, annota l’autore: «Di recente il carabiniere Mauri ha fatto i complimenti a una sposa che teneva in braccio un neonato, perché l’aveva chiamato Mite, anche se il pargolo sembrava parecchio irrequieto. E questa ha subito richiamato al suo fianco la sorella più grande: Dina! Dina-Mite! Ma come si fa? Che tempi, dove andremo a finire…».
IN QUESTO CONTESTO che il rifiuto di combattere in divisa diventa automaticamente resistenza ante litteram al fascismo che si materializza nelle contrade di provincia con le scorribande delle camicie nere, le quali agiscono impunite sotto lo sguardo compiaciuto di agrari e uomini in divisa: dopo aver masticato amaro per qualche tempo, di fronte alle scandalose intemperanze di persone fino a poco tempo prima aduse all’obbedir tacendo, la restaurazione dell’ordine si materializza con metodi spicci quando non esplicitamente criminali ma appare loro provvidenziale.
QUI LA TEMPERIE AIUTA a specificare meglio: far marciare la reazione non è come combattere la guerra di trincea. Sì tratta piuttosto di avanzare come dentro a una colonia: «La differenza sta nel fatto che là quella cosa la chiamano civilizzazione, e qui la stessa cosa si chiama ricostruzione nazionale».
A questo punto, insieme all’autore, possiamo provare ad abbozzare una risposta alla domanda dalla quale siamo partiti. «La tragedia non è cosa per poveri, pensavo un tempo – riflette Prunetti – Ai poveri si addice la commedia. Ma la realtà è che anche il tragico si addice agli ultimi, quello che a loro manca è la retribuzione finale, la compensazione, la catarsi alla fine della novella nera». Non c’è in effetti nessuna compensazione nelle vite disperse in esilio di alcuni dei protagonisti di Troncamacchioni, nella condizione di sopravvissuti di quelli che tornano al paese per vivere per decenni fianco a fianco coi loro ex aguzzini rimasti sconfitti alla fine del fasciamo ma in fondo impuniti o peggio ancora nell’epilogo infame di quelli che scapparono in Unione sovietica e finirono stritolati nella morsa del terrore staliniano.
A noi lettori resta però questa mitologia popolare. Che ci racconteremo al bancone dell’oste antifascista di Prata, mescitore di tutti i banditi senza tempo la cui vicenda è da gustare fino all’ultima goccia.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento