Pietro Perugino intorno al 1475 è sui suoi venticinque anni. Scorgiamo il suo volto tra il gruppo dei dignitari attorno ai tre Re Magi che sono appena giunti davanti alla precaria tettoia lignea che accoglie la Vergine, in braccio il Bambino benedicente, e Giuseppe, bianca la barba, entrambe le mani appoggiate al pomo del bastone. Il bue e l’asino assistono a quell’omaggio che vien reso al Bambino nato dieci giorni orsono, affacciati a uno steccato infisso lì, accosto alla tettoia sostenuta da pali assicurati alla travatura, in alto, da corde vegetali strettamente annodate.

L’ora è mattutina, pallida in cielo brilla la stella cometa, come una luna di giorno. Oltre un crinale vicino ove serpeggia il sentiero che ha portato i Magi alla tettoia, azzurre lontananze si perdono nel susseguirsi di colli e dolci pianure. Consideri che quel paesaggio e quegli alberelli che verdeggiano non sono d’un gennaio che trattenga rigido il sopravvenire della primavera. La primavera sembra piuttosto esser già fiorita in quella landa, fiorita per mai sfiorite, fiorita una volta per sempre. Una costatazione questa che invita a riflettere su come (e perché) la primavera con la sua luce si affermi, se non vado errato, quale stagione permanente e unica nella pittura di Perugino.

Sto osservando e tento di descrivere la Adorazione dei Magi commissionata al giovane pittore dai Baglioni che si conserva nella Galleria Nazionale dell’Umbria. Scrivono Marco Pierini e Veruska Picchiarelli che han curato la mostra Il meglio maestro d’Italia. Perugino nel suo tempo in quest’anno 2023, nel quinto centenario della morte dell’artista, a Perugia, presso la Galleria Nazionale dell’Umbria: «Nel margine sinistro dell’Adorazione Pietro Perugino si ritrae, rivolgendoci uno sguardo franco e intenso.

Il volto, di tre quarti, è quello di un giovane sui venticinque anni o poco più, perfettamente rasato, con la fronte spaziosa, le sopracciglia ben disegnate. La larga chiazza rossa sotto l’occhio testimonia un’affezione cronica, il lupus, che l’artista sceglie di non nascondere. La bocca serrata rivela labbra sottili. Capelli folti, castani, lunghi quasi a sfiorare le spalle; veste con modestia, distinguendosi dagli elegantoni al seguito dei Magi, coi loro tessuti preziosi e i copricapi dalle fogge ricercate. Il farsetto rosso lascia emergere un sottilissimo lembo della camicia bianca e, dove aderisce al collo, reca chiari due caratteri capitali: «IO», orgogliosa rivendicazione di sé e delle sue qualità d’artista espressa a imitazione di un bottone».

Non può non stupire, chi percorra l’opera di Perugino nell’arco dei successivi, intensi e laboriosi quarantotto anni, come questa Adorazione mostri, possiamo ben affermare, tutti gli straordinari raggiungimenti della sua pittura, per dir così, in anticipo. Come Pallade dalla testa di Zeus, così, pittore tutto ‘armato’ e già ‘adulto’, Perugino esce dalla bottega fiorentina di Andrea del Verrocchio.

All’elevato tenore cromatico, disegnativo, compositivo, poetico e di perizia tecnica attestato da questa sua Adorazione, Perugino si mantiene per mezzo secolo senza una scossa, integralmente, compiutamente, senza una oscillazione, esente da pur minime diminuzioni di maestria e di grado qualitativo. Ma non è solo il talento che si afferma in esordio. È la concezione della poetica sua propria che nasce nella sua forma compiuta, risolta, perfetta.

Si diceva della luce dell’Adorazione. Potremmo dire degli sgargianti panneggi dove colore e drappeggio danzano in volute cromatiche, secondo spartiti distribuiti come variazioni molteplici d’un tema concertato. In questa Adorazione del 1475, o nella coeva tavola dei Santi Antonio e Sebastiano, o nello Sposalizio della Vergine realizzato tra il 1500 e il 1504. Ma stiamo alla luce mattinale e primaverile. Luce che pervade, non cala e non incide. Senza una fonte, ha la medesima perfezione dell’oro.

Pur se dipinta in termini atmosferici, è luce che allude a un tempo che non varia. Così come non varia l’eterno che in Perugino si manifesta come mancanza di vento. Gli alberi sono nel verde delle foglie novelle che non stormiscono. La tipologia delle piante e delle erbe è araldica ovvero è una cifra.