Scrittore di culto per pochi ma affezionatissimi lettori, James Purdy ha attraversato il Novecento restando ai margini della cultura statunitense: secondo parole che lui stesso non si stancava di ripetere, il suo lavoro poteva essere paragonato a «un fiume sotterraneo che ha attraversato il paesaggio americano senza mai venire alla luce». Non a caso, nella sua ormai classica storia della letteratura nordamericana, Carlo Izzo lo ha indicato come uno dei pochi nuovi scrittori, oltre a Bellow e Salinger, che si sono staccati dal grigio panorama degli anni Cinquanta, facendo in particolare riferimento a una sua raccolta di racconti del 1957, Colour of Darkness, in cui erano confluite, oltre a diversi inediti, storie pubblicate in precedenza privatamente sotto il titolo Non chiamarmi col mio nome. È dunque significativo che, riproponendo una scelta di racconti di Purdy (la maggior parte dei quali tratti da Colour of Darkness), la casa editrice Racconti abbia deciso di riprendere il titolo di quel primo lavoro, che al tempo non fu commercializzato: Non chiamarmi col mio nome (traduzione di Floriana Bossi, pp. 225, euro 17,00).

Ai racconti si aggiunge, in questa nuova edizione italiana, la novella «63: Palazzo del sogno» che, pubblicata anch’essa privatamente nel 1956 (dopo essere stata rifiutata da vari editori statunitensi) avrebbe trovato un’entusiasta estimatrice in Edith Sitwell, il cui interessamento procurò a Purdy non solo un editore inglese, ma anche l’attenzione e le lodi di alcuni influenti intellettuali dell’epoca, come Dorothy Parker e Angus Wilson.

Fuori dalla norma
Non è difficile comprendere quali elementi attraessero questi autori (e più tardi scrittori così diversi come Susan Sontag, Samuel Beckett e Tennessee Williams) nella narrativa di Purdy e cosa scandalizzasse (o quanto meno inquietasse) gli editori. È un universo fuori dalla norma, il suo, dove creature incapaci di sopportare «nulla che non sia normale» si trovano a negoziare la loro esistenza con individui spuntati da chissà dove, per cui l’inconsueto e il perturbante sono il precipitato di una (a)normalità che accettano e rappresentano con quell’ambivalenza che deriva dalla mancanza di reti di protezione: «voleva dire proprio quello che diceva, e forse era questo che rendeva le parole strane», si legge del protagonista di «63: Palazzo del sogno».

Nello strano mondo di Purdy e dei suoi personaggi, la violenza verbale può generare violenza fisica (come nel racconto che dà il titolo alla raccolta o in «Colore del buio») e il massimo conforto che le parole possono offrire è quello di «un antidolorifico» contro «una malattia mortale»: in «Il suono delle parole», per esempio, l’irritazione causata dal chiacchiericcio della moglie attenua i dolori di un invalido, procurandogli «una specie diversa di sofferenza». In Purdy, le parole sono armi che, isolate dal contesto, acquisiscono funzionamento simbolico, come oggetti distorti e straniati in un quadro di Dalì. Da una parola si può essere perseguitati, come da «una faccia a cui non si sa dare un nome e che continua a balenarci all’improvviso davanti agli occhi». È un universo in cui la tenerezza può trasformarsi in un attimo «in furia e in avversione e odio» e il dolore altrui può provocare, invece che pietà, inspiegabili istinti di una violenza non sempre reprimibile.

In questo mondo a metà strada tra David Lynch e Carson McCullers, si agitano persone che parlano «come se nulla fosse davvero importante tranne i gesti e le parole», persone a cui, spesso, la vita appare come «un film troppo lungo e mal recitato». Sono figure consapevoli solo del vuoto che è al centro delle loro esistenze, di quel «qualcosa di troppo roccioso, troppo amaro e immobile» che, dentro di loro, impedisce alle lacrime di staccarsi, esplodendo in un pianto liberatorio.

Frammenti di inferno
Non c’è catarsi né epifania nei racconti di Purdy: solo frammenti di inferno, momenti infiniti in cui si raggiunge la piena coscienza del vuoto, del non volere e del non aspettare più nulla, sentendosi come se «dentro, fosse andato tutto in fumo». Così alla protagonista di «Tempo di sera» sembra di «non avere più nulla dentro» quando comprende che il figlio non tornerà più a casa; mentre la «grandonna» che incombe su «63: Palazzo del sogno» annega nell’alcol il suo «vuoto di ricordi», guardando intorno a sé con occhi che «sarebbero stati intelligenti se non fossero stati così assenti».

Individui le cui fattezze e i cui modi non corrispondono mai all’età anagrafica – persone attempate che «non avevano imparato nulla dalla vita, si erano fermati a galleggiare nello stesso punto vent’anni prima», giovani che sembrano essere stati colpiti da «quel qualcosa di spaventoso e permanente» che li fa somigliare a sessantenni, bambini dal visetto «terribilmente vecchio e sciupato» – i personaggi di Purdy sembrano vagare in una notte perenne, accettando «l’immensa tetraggine delle cose come se le cose non avessero la possibilità di cambiare forma».

Jonathan Franzen ha notato che il maggior talento di Purdy è «narrare l’inesorabile corsa verso il disastro in un modo che risulta soddisfacente, e in un certo senso vivificante, quanto una corsa verso il lieto fine». Proprio in questa componente «ossimorica» dell’universo di Purdy sta l’originalità del suo particolarissimo realismo magico: non si tratta, per lui, né di raccontare l’alchimia del reale (come è stato detto, spesso impropriamente, a proposito degli autori del boom sudamericano) né di enfatizzare il grottesco di un mondo più reale del reale (secondo il procedimento che, per Tomasi di Lampedusa, è al cuore del «realismo dis-realizzato» di Dickens). Purdy ci cala, piuttosto, in un realismo onirico, un ambiguo stato di perenne dormiveglia in cui si esperisce una banalità anomala percorsa da pulsioni sovversive. Tra sonno e veglia, sul labile confine tra morte e morte-in-vita, i personaggi di Purdy si dividono tra coloro che esercitano sugli altri «il terribile trionfo del fallimento … il potere della sconfitta» e quelli che, nei loro momenti migliori, aspirano inconsciamente a una morte «piena di desiderabile mistero».

Scivolando verso il buio
Intorno a loro, le luci, quasi sempre basse, sfumate, mutano, gli scenari sbiadiscono, i luoghi, «a cui nessuno sentiva di appartenere e in cui nessuno rimaneva a lungo», si fanno indefiniti – o fin troppo definiti – come in un sogno – o in un incubo. E la maestria di Purdy si manifesta nella resa di questo scivolamento lento verso il buio: «la sera che fino ad allora si era infiltrata lentamente nella casa adesso entrò come una grande ondata, portando il piccolo salotto dentro la profonda notte d’estate e non era difficile credere che la luce del giorno non potesse entrare mai più, tanto la notte era nera e ferma». Il racconto è inghiottito dal buio, eppure la resa alla notte senza fine risulta davvero, in qualche modo, «vivificante», in un mondo in cui il ritorno del giorno è da temere e lasciarsi travolgere dal buio reca «quel senso di felicità che può dare la morte».