Un voto che non salva l’Unione
Europarlamento Un’elezione non certo trionfale, quella di Ursula von der Leyen a capo della Commissione europea. Si sapeva che sotto i 400 voti sarebbe stato un esito debole. Juncker era stato […]
Europarlamento Un’elezione non certo trionfale, quella di Ursula von der Leyen a capo della Commissione europea. Si sapeva che sotto i 400 voti sarebbe stato un esito debole. Juncker era stato […]
Un’elezione non certo trionfale, quella di Ursula von der Leyen a capo della Commissione europea. Si sapeva che sotto i 400 voti sarebbe stato un esito debole. Juncker era stato eletto con 422.
Lo scarto è stato davvero esiguo. Segno, anche questo, dell’indebolimento e dell’erosione delle istituzioni europee persino nella loro plancia di comando, ad onta del mantenimento pervicace delle scelte rigoriste e dell’autoritarismo che le pervade che condannano la Ue ad essere vittima più che della crisi delle sue stesse politiche. I sovranisti non hanno sfondato il 26 maggio, ma il vecchio mainstream ha perso smalto. Il programma riassunto dalla der von Leyen non ha scaldato i cuori di nessuno, al di là degli applausi di rito. Un discorso con modalità quasi veltroniane nei suoi «ma anche», come a proposito dei migranti, curvato alla necessità di carpire più voti possibili.
Questa strumentalità ingenera legittimi sospetti sulla credibilità degli obiettivi avanzati. Così va inteso il riferimento, piuttosto indeterminato, al salario minimo europeo, che però ha avuto successo sui 5 Stelle, visto il loro voto favore e determinante, rimarcando un’ulteriore diversità dall’alleato di governo che non ha voluto abbandonare il fronte sovranista, malgrado la necessità di piazzare una candidatura italiana – si fa il nome di Giorgetti – a commissario europeo alla concorrenza, oppure al commercio o all’industria. L’accenno della nuova presidente a un più marcato attivismo ambientalista dell’Unione, con l’impegno a ridurre del 50% le emissioni di Co2 entro il 2030 e di arrivare alla neutralità carbone nel 2050, non ha sortito effetto sul voto dei Verdi.
D’altro canto sarebbe stato strano un loro atteggiamento positivo dopo che le intese sulle nomine li hanno esclusi da tutto, malgrado il loro ottimo esito elettorale. Intanto la Lagarde ha dato le dimissioni da Presidente del Fmi che diventeranno effettive dal 12 settembre, per assumere da novembre il ruolo di presidente della Bce. Se quest’ultima ha già un percorso tracciato dal suo predecessore, Mario Draghi, da cui non le sarà facile discostarsi a breve, resta l’interrogativo di quali saranno le scelte della von der Leyen.
La sua biografia non è monolitica, ma la indica come una donna forte, come si suol dire cedendo ad una concezione maschilista della politica che identifica nella forza una virtù tanto più rara se attribuita all’altro genere. È stata la prima donna a guidare le Forze armate del suo paese. Il suo nome è stato fatto anche per la carica di segretaria della Nato, pur non ottenendola. Ha rasentato anche la presidenza della Repubblica federale tedesca, ma anche in questo caso invano. Per un certo periodo pareva essere lei la candidata naturale a succedere alla Merkel alla guida della Cdu, fin quando il vento non girò a favore di Annegret Kramp-Karrembauer, considerata più allineata alla cancelliera uscente. La nomina della von der Leyen corre sull’asse franco-tedesco, uscito piuttosto ammaccato dai risultati elettorali dei partiti della Merkel e di Macron, e non certo esaltato da questo voto del parlamento europeo.
Del resto fu Macron a impallinare lo Spitzenkandidat della Csu/Cdu, Manfred Weber. Il passato della von der Leyen la indica fedele alla Nato, ma non millimetricamente allineata. Si può dire che nel suo operato è sopravvissuto qualcosa dell’antica Ostpolitik tedesca degli anni ’70. Ne fa testo il sostegno dato a una apertura a Mosca nella crisi con l’Ucraina e il suo no deciso alla vendita di armi a Kiev, non attribuibile solo alla tradizionale politica tedesca di non ingerenza nei conflitti. Allo stesso tempo Ursula von der Leyen è stata al centro di critiche da parte della Lega internazionale per i diritti umani che l’ha accusata di volere trasformare il cyberspazio in un nuovo campo di battaglia, senza alcun controllo degli organi elettivi, quando propose di combattere la pedofilia online con un intervento su Internet che avrebbe potuto sfociare in censura politica. Una via puramente continuista non è pensabile.
Il peso degli Orbán e dei Kaczynski si farà sentire.
Né alla Ue basteranno le alchimie draghiane per superare gli scogli che si intravedono all’orizzonte sia in campo economico che su quello della pace.
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