Un viaggio per immagini alla fine del mondo
Libri «Una volta», le fotografie di Wim Wenders tra deserti, periferie, spazi metropolitani
Libri «Una volta», le fotografie di Wim Wenders tra deserti, periferie, spazi metropolitani
Deserti, periferie, frammenti di città, carcasse di automobili, i corpi umani, animali di carne e plastica, spazi marginali metropolitani. Sono oltre trecento le fotografie di Una volta, (Contrasto Books), che illustrano il viaggio,fra immagini, parole e metropoli di Wim Wenders, istantanee tentate da giochi pittorici e accompagnate da brevi testi, semplici e precisi, sempre introdotti dalla fiabesca «Una volta».
Scorrono così vecchi alberghi dell’Arizona, la sacralità della Monument Valley, gli odori delle strade bagnate di Pittsburgh che assomigliano alla natia Oberhausen, i mattoni degli edifici di Lisbona che per un attimo si confondono con quelli della vecchia Germania.
Un occhio «mondiale» che realizza sogni infantili e distrugge confini, dove nei margini, nei riflessi di un vetro, sul limitare di un’orizzonte fordiano, appare l’universo-uomo come negli scenari della Grande Depressione di Walker Evans, nel bianco e nero di August Sander e, ovviamente, nel sale della Terra del «suo» Salgado, recentemente omaggiato nell’omonimo documentario.
Per il regista tedesco l’atto fotografico è principalmente strumento di conoscenza, qualcosa che appartiene all’essenza stessa del viaggio, come un’automobile o un aereo, una spinta quasi pioneristica per arrivare fino alla fine del mondo; ma soprattutto un passaggio obbligatorio che precede il concepimento di un film, specialmente se girato fuori dai confini nazionali, nelle geografie sognate da bambino.
Per Wenders l’immagine fotografica (e filmica) è sempre stata la base di un cinema che riflette sulla verità di ciò che viene guardato e dunque le fotografie non possono che ambire allo statuto di punti di riferimento dove sono i luoghi a muovere e creare la narrazione, a incitare l’accensione della macchina-cinema che, inevitabilmente, innerva di magia, destino e commozione le pagine del libro.
L’incontro con Martin Scorsese e Isabella Rossellini intenti a cambiare la ruota della macchina, Nicholas Ray mentre gioca a biliardo, Claire Denis in una cabina telefonica con alle spalle un dinosauro di gomma, un pomeriggio a San Diego con Jean-Luc Godard e Jean-Pierre Gorin, una gita a Napa Valley nella tenuta di Francis Coppola con in macchina Akira Kurosawa e la sua traduttrice. Volti rubati, membra rilassate e inconsapevoli di uno sguardo, scatti che non sono ritratti – non a caso il primo piano è uno degli elementi della punteggiatura filmica meno usato da Wenders – corpi indissolubili dal paesaggio che li accoglie e li nutre.
In questo attraversamento della memoria infine non stupisce che i sogni giovanili di dedicarsi ai dipinti siano confluiti, oltre che nello schermo bianco-tela, nella realizzazione massiccia di Polaroid, supporto che data l’assenza del negativo, e dunque di una possibile riproducibilità, viene associato a una forma d’arte più antica, più simile alla pittura per via della sua «aura».
La Polaroid congela il tempo e regala a Wenders quell’autenticità dell’immagine che da sempre ossessiona la sua autostrada di celluloide così somigliante al viaggio di Rüdiger Vogler in Alice nelle città, a quella riscoperta di luoghi della memoria e dell’anima che solo la fiducia nell’immagine può restituire. Del resto, come annunciava più di un secolo fa Paul Cézanne: «Le cose stanno scomparendo. Se vuoi vedere qualcosa, allora devi sbrigarti».
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