Il Novecento è stato davvero l’«età degli estremi» come lo ha definito Hobsbawm. Orrore, emancipazione utopica, emancipazione reale, rivoluzioni e controrivoluzioni, rivoluzioni del pensiero e regressioni profonde, si sono mescolate in un insieme di relazioni dove gli aspetti estremi di tale età non sono facilmente separabili.

UN RECENTE LIBRO di Fabio Fabbri (L’alba del Novecento. Alle radici della nostra cultura, Laterza, pp. 320, euro 24) ci fa riflettere sul fatto che il panorama delle contraddizioni, orrori compresi se alziamo lo guardo verso l’Europa considerata periferica e, soprattutto, fuori dall’Europa, era già presente nell’«apparente spensieratezza della Belle époque». Quello di Fabbri è un viaggio all’interno di un tempo in cui il passaggio tra il vecchio ed il nuovo secolo veniva vissuto, mentre era in atto, come luogo di rotture epocali con il passato. «Dalla mentalità, liscia come un olio, degli ultimi due decenni del diciannovesimo secolo era insorta improvvisamente in tutta l’Europa una febbre vivificante. Nessuno sapeva bene cosa stesse nascendo, una nuova arte, un uomo nuovo, una nuova morale o magari un nuovo ordinamento della società. Ma dappertutto si levavano uomini a combattere contro il passato». Queste le considerazioni di Robert Musil quando, molti anni dopo, ne L’uomo senza qualità, ripercorrerà un clima culturale di cui era stato protagonista. Di questo clima coglierà anche «contraddizioni e gridi di guerra molto antitetici» che però si erano «amalgamati in un afflato comune», in «un senso baluginante». Metterà in evidenza, però, anche l’«illusione materializzata nella magica data della svolta del secolo».

IL LIBRO DI FABBRI fornisce importanti elementi di orientamento in un contesto in cui «c’era un po’ troppo di cattivo mescolato col buono, di errori con verità, di accomodamenti con convinzioni», ma nel contempo era cominciata «veramente un nuova èra» (Musil). Un contesto che fu, certamente, di frammentazione culturale, ma sulla base di un comune afflato. Perciò Fabbri ha scelto di iniziare il suo percorso «come il boscaiolo che esamina l’evolversi della foresta non dalle radici alle foglie, ma con l’attenta analisi dei cerchi concentrici sulla sezione orizzontale del fusto». I cerchi sono molti, riguardano sfere diverse della dimensione culturale, e così il fusto che ne deriva, nonostante le radici affondino nel terreno del suddetto «comune afflato», risulta essere piuttosto contorto.
Il libro affronta il problema dei rapporti tra i mutamenti avvenuti quasi in contemporanea nei campi delle arti figurative, della letteratura creativa, della scienza e della tecnica. Esemplare a questo proposito l’annotazione di Kandinskij dopo i Nobel assegnati nel 1903 ai coniugi Curie per le loro scoperte di fisica atomica: «Per me la disintegrazione atomica equivaleva a quella del mondo e di colpo dei muri spessi crollavano. Tutto era vago, incerto, vacillante».
Analoghe connessioni con le svolte nel linguaggio musicale e in quello teatrale. Così come nel rapporto tra le ricerche freudiane e l’introspezione psichica che caratterizza le opere di Musil, Proust, Svevo, Mann.

UNA PROSPETTIVA complessiva di rinnovamento culturale che avanza mentre nello stesso tempo crescono e si rafforzano i motivi profondi dell’imminente crollo di civiltà: gli orrori della colonizzazione, la conflittualità dei rapporti internazionali in quella specifica fase imperialista, la nazionalizzazione delle masse, necessariamente connessa alla crescente temperie conflittuale.
Ancora Musil, nella sua riflessione sulla «rivoluzione intellettuale», afferma che il «movimento si svolse solo nello strato sottile e incostante degli intellettuali e non influì sulla massa». Un’ulteriore contraddizione? È un fatto, anche se chi scrive libri non lo accetta volentieri, che i processi storici, le guerre, le rivoluzioni sociali, non hanno nella letteratura creativa, nel cambio di paradigma dei linguaggi artistici, le ragioni dei loro svolgimenti.
Tuttavia, nota lo stesso Musil nei suoi Scritti sulla stupidità degli anni Venti, il 1914 ha dimostrato che la «massa» è molto «malleabile». Contemporaneamente quanto muove le masse non lascia indenne la «vacillante» sfera culturale. Il 1914 vide l’adesione di gran parte della cultura europea allo «spirito della guerra». In questo nostro presente, quando per molti versi stiamo vivendo una situazione internazionale che ha analogie con quella che ha preceduto il 1914, il libro di Fabbri è un invito a riflettere sull’intreccio delle temporalità multiple nei processi storici.