Un viaggio ascetico sulle tracce dei cancellati
Letteratura israeliana In una scrittura fatta di parole strettamente necessarie, Ahron Appelfeld racconta la fuga dal lager di un giovane austriaco: «Giorni luminosi», da Guanda
Letteratura israeliana In una scrittura fatta di parole strettamente necessarie, Ahron Appelfeld racconta la fuga dal lager di un giovane austriaco: «Giorni luminosi», da Guanda
Alla fine della guerra, il giovane prigioniero austriaco Theo Kornfeld decide di lasciare il campo di concentramento abbandonato dai guardiani ucraini in fuga. Sebbene sappia che la sola identità che gli resta è la comunità dei prigionieri con cui ha condiviso gli attacchi di tifo e le frustate nelle marce notturne, sente di doversi separare dai compagni e mettersi in cammino, attraversare il confine, ritrovare i luoghi da cui è stato strappato. Una parte di sé è rimasta al campo, l’altra avanza tra i gruppi di profughi, le carcasse di camion ribaltati lungo il ciglio delle strade, in un percorso punteggiato da incontri con esseri lunari, persone spiaggiate nei boschi, prive di orientamento, timorose del ritorno, che fanno rivivere nella sua mente altri volti, altre voci.
Le gambe tornano in moto
Figure che emergono dal passato, brevi quadri della vita precedente si fondono con le immagini della prigionia, con il mondo di figure solitarie che si scambiano l’umanità rimasta dopo i campi, intrisa di stupore e di paura. Ogni persona incontrata assomiglia a qualcuno, ognuno ha avuto una storia, il compito non è giudicare ma medicare chi è ferito, cuocergli una minestra, dargli un caffè, per il breve tratto di strada compiuto insieme. Nessuno trattiene l’altro dal suo inevitabile pellegrinaggio. Le gambe tornano a mettersi in moto, quasi dotate di volontà propria. Nel cammino Theo parla da solo, a voce alta, ma la sua voce lo stupisce, è la voce dello sdoppiato: l’altra voce è rimasta al campo. Nelle notti lo visitano i compagni, che sente di aver tradito per essersene andato, per essere sopravvissuto. E continuamente rivede la madre, figura di bellezza impetuosa, solitaria e pazza, che amava i monasteri e la musica di Bach. E un padre discreto e paziente, che trovava rifugio nella sua libreria fitta di testi cosmopoliti e poi nel negozio di fiori.
Nel romanzo di Aharon Appelfeld uscito in Israele nel 2014, e appena tradotto da Elena Loewenthal con il titolo Giorni luminosi (Guanda, pp. 288, euro 19,00) i ricordi sono come fiammiferi che si accendono e illuminano il mondo per un istante: la cappella visitata nell’infanzia, il fiume, i viaggi con la madre, la sosta nei piccoli ristoranti delle stazioni. Solo brevissimi istanti, anch’essi sopravvissuti da accudire, cui tentare di dare un nome, un caffè, prima di vederli svanire.
Tutto è rarefatto, il racconto è un filo sottile in cui la vita è in bilico tra memoria e incubo, elaborazione di frammenti interrogati infinite volte. Gli stessi fatti, il carattere della madre, la muta arrendevolezza del padre, i viaggi, sono ripetuti decine di volte, in variazioni e partiture, con lievi differenze e angolature, come una cosa che vada portata fuori da sé per essere capita, perché le parole la possano rendere reale e dicibile.
Altri ricordi sono pietre acuminate, vetri taglienti. L’arresto, il commissariato, la strada verso la stazione quando, irrisi, vennero fatti inginocchiare, caricati sui vagoni bestiame ancora con lo stupore della protesta invetriato negli occhi. L’immagine della madre deportata, in poche righe. Il volto tondo di Maxi, il compagno crollato a terra mentre si trascina al lavoro dopo l’appello, i guardiani che gli sparano e buttano il suo corpo nel canale. «La scena che aveva appena rivisto era chiara e ingigantita. E lui non sapeva che dire. Alla fine disse “Maxi” e non aggiunse altro. Scusami, stava per dire, ma non lo disse».
Cosa fare dell’enormità che si è vista? Come custodire la pietà? In Giorni luminosi la scrittura è viaggio ascetico verso una casa che si sa non esserci, in cerca di figure cancellate dal mondo. Una scrittura di periodi brevi, povera di aggettivi e avverbi, fatta di parole necessarie al cammino, come provviste nello zaino misurate per sopravvivere senza farsi rallentare dal peso. «Nulla ci è garantito», dice un profugo incontrato per strada. «Perché usare parole e concetti che si usavano prima della guerra? non vi rendete conto che è ridicolo?». Nemmeno le indicazioni segnaletiche sono più le stesse, e ci si perde in percorsi tortuosi.
Poi non ci sarà più nemmeno il vagabondare. Finiranno i giorni luminosi, sospesi tra il prima e il dopo – i «giorni di stupefacente chiarezza», come suona in ebraico il titolo del libro. I giorni della tregua di Levi, quando il ritorno è un’avventura, una speranza non ancora tarpata.
Nel suo procedere, Theo impara ad amare la folla di persone stracciate uscite dai campi, e tuttavia scopre che nelle valli dove si radunano i profughi tutto è avvolto da vapori umidi e malsani. «Ne risaliva un brusio di gente affamata di parole. Di uccelli non se ne sentivano, ma a tratti usciva un lamento acuto e spaventoso». Theo capisce di non volere per sé l’identità del sopravvissuto. «Dovremmo stare per sempre insieme?» chiede a una profuga prima di fuggire dalla valle. «Sempre con persone che hanno stampata in volto la sofferenza? Sempre a rivangare ciò che è stato? Una volta a incolpare gli altri, una volta a incolpare se stessi?». Cerca riparo negli spazi aperti risalendo sulle colline, ma neppure qui trova pace: sui crinali marciano figure indistinte che vorrebbero accerchiarlo, arrestarlo, forse ucciderlo, benché il loro comportamento appaia indifferente. Ogni volta tornano, poi scompaiono.
Verso una nova casa
Quando, estenuato, Theo alla fine si consegna, scopre che non ce l’hanno con lui, che vogliono solo aiutarlo a tornare a casa, fargli attraversare il confine. Lo accompagnano, lo abbracciano, e il comandante gli rivolge un ultimo saluto: «Che i tuoi cari siano sempre con te. Vai dritto, passa il ponte e con l’ultimo buio arriverai a casa tua».
Una casa che va ricostruita altrove, dai fili strappati di memoria, ricostituendo in sé la comunità dei vivi e dei morti. Senza padre e madre non si è nessuno, gli aveva detto un profugo: ma nemmeno senza il lascito materno e paterno, le chiese e le biblioteche. Sono quelle le radici su cui poggiare, nonostante il crimine attraversato.
«Il campo mi ha reso credente. Mia madre era credente, la sua fede era la musica di Bach. Ho sempre amato la musica da chiesa e i conventi». Theo dovrà imparare a proteggere la religione che è nella musica, nei boschi, nel gesto umano, nella bellezza sopravvissuta del mondo. É l’uomo spoglio, cui resta solo la pietà.
Per tutta la sua vita letteraria, Appelfeld ha disegnato un mandala con la polvere dei campi di concentramento e ci ha soffiato sopra per poi di nuovo raccoglierla e ricomporla in altre geometrie, un prodigio che pareva non poter avere fine. Ci lascia gli infiniti disegni che assumono sempre nuove forme per dirci gli animali, il silenzio, la notte, la foresta, la bontà umana, la parola del sacro disseminata nel mondo anche dopo la sua corruzione.
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