Un tutti contro tutti che mina il muro del Colle sulle urne
Il rebus del governo Per aprire al Pd Di Maio diventa anche rigorista. Ma l’ala renziana resta irremovibile. Per aprire al Pd Di Maio diventa anche rigorista. Ma l’ala renziana resta irremovibile
Il rebus del governo Per aprire al Pd Di Maio diventa anche rigorista. Ma l’ala renziana resta irremovibile. Per aprire al Pd Di Maio diventa anche rigorista. Ma l’ala renziana resta irremovibile
Grande è la confusione sotto il cielo: la situazione, in questo caso, è dunque pessima. Almeno agli occhi del capo dello Stato che ha in mente una linea del Piave ben delineata ma vacillante: evitare a tutti i costi le elezioni in ottobre, a legge di bilancio aperta, senza garanzia che dalle urne esca un risultato diverso da quello del 4 marzo, con lo spettro dell’esercizio provvisorio incombente. Ma per questo serve un governo con una maggioranza politica e anche solo immaginarlo è un rebus.
LA FORMULA M5S-LEGA, un tempo la meno apprezzata dal Quirinale, oggi verrebbe accolta con un sospiro di sollievo. Ma, anche se una lenta marcia di avvicinamento è in corso, non è che sia proprio a portata di mano. Ieri, come la sera prima Luigi Di Maio al telefono con Matteo Salvini, i 5 Stelle hanno martellato tutto il giorno sulla richiesta della presidenza della Camera e non del Senato. Ci tengono perché la presidenza di Montecitorio ha poteri molto più ampi sul calendario e garantirebbe la priorità del voto sui vitalizi, ma anche perché temono che in caso contrario, dopo aver assegnato al presidente del Senato a cinque stelle un mandato esplorativo, il capo dello Stato ne approfitterebbe per dribblare l’incarico pieno proprio a Di Maio. E’ un timore infondato e istituzionalmente surreale ma vaglielo a spiegare.
SIA LA DELEGAZIONE del Pd che Pietro Grasso per Leu hanno mantenuto un atteggiamento rigorosamente interlocutorio. Ma sulla presidenza della Camera il Carroccio non vuole e forse non può mollare. Se fosse davvero occupata dal Movimento 5 Stelle, Forza Italia reclamerebbe per Paolo Romani lo scranno già di Grasso a palazzo Madama. «Abbiamo più senatori. Ci spetta. La Lega poi ha già il candidato premier», confessa in privato il diretto interessato azzurro. Fingendo di non sapere che molto probabilmente il candidato Matteo Salvini resterà tale senza incoronazione.
I RAPPORTI TRA I DUE ALLEATI della destra sono più che tesi. Mercoledì sera, dopo l’assemblea dei parlamentari azzurri, Salvini ha incontrato Silvio Berlusconi, poi ha giurato che tutto va alla grande: «Silvio incazzato? Ma no! Dicono che ha chiuso a M5S? Non mi sembra». Invece la chiusura c’è stata, drastica e senza appello, ripetuta oggi da tutti i forzisti di stretta osservanza. L’eventuale rottura sulla presidenza del Senato potrebbe effettivamente spingere Salvini verso Di Maio ma prima di separarsi da una Forza Italia che mira a colonizzare, il Matteo padano ci penserà dieci volte e l’ipotesi di un accordo tra tutta la destra, azzurri inclusi, e i 5 Stelle è fuori dal mondo.
C’È DI PIÙ E DI PEGGIO. Ieri Luigi Di Maio ha tweettato forte e chiaro: «Prima di parlare di sforamento del deficit bisogna procedere con la spending review». Poi la parola un tempo più aborrita: «Continuità». Nessuno sforamento del tetto del 3%. Nessuna variazione nella via crucis verso la riduzione del debito. Un Di Maio tanto in linea con Bruxelles da destare l’ironia del Pd: «Supera i falchi del rigore». Nel programma pentastellato c’è anche la priorità della sterilizzazione dell’aumento Iva, un cavallo di battaglia di Salvini, ma è un punto che va benone allo stesso Pd.
DOPO LA SVOLTA ISTITUZIONALE quella rigorista, e per quanto assurdo appaia e in buona parte sia è un’apertura a sinistra, mica a destra, al Pd rigorista. Infatti da quelle parti la tentazione di supportare il governo Di Maio c’è, e cresce, ma sino a che non si convinceranno i renziani, e non sembra facile, la strada resterà sbarrata. Come del resto quella verso un appoggio al governo di destra. Le fazioni del Pd si elidono a vicenda. Il mantra «siamo all’opposizione» è il solo riparo che impedisce al partito di disgregarsi.
IN QUESTO CAOS, vera e propria guerra di tutti contro tutti esposta ad alleanze volatili e variabili, la sola divisione che ricordi una parvenza d’ordine è quella tra chi mira a evitare il voto a tutti i costi, Pd e Forza Italia, e chi invece non teme nuove elezioni e forse anzi ci spera. Come il Salvini che già vede una riforma elettorale a passo di carica: «La legge che c’è più premio di maggioranza: basta una settimana».Ma anche come il Movimento 5 Stelle. In Parlamento il partito del voto è il più forte. Ma con il peso del Quirinale e di Bruxelles dall’altra parte l’equilibrio cambia, forse si rovescia. Dunque su una cosa sola si può scommettere: la crisi sarà lunghissima.
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