Una raccolta di racconti sull’ippica è, per un lettore abituale di narrativa, un libro ai confini del niente: l’unico luogo dove possono presumibilmente incrociarsi un appassionato di letteratura e un amante dei cavalli da corsa è davanti a un quadro di George Stubbs. Per il resto, è difficile parlino una lingua comune. Potranno ritrovarsi sulle pagine di Gerald Murnane?

Se abbia o meno un senso, per chi apprezza dei cavalli nient’altro che la loro nobiltà estetica e il loro uso simbolico nella mitologia classica, scendere sul terreno polveroso delle corse al galoppo e insinuarsi nelle logiche degli allibratori, è l’interrogativo che non possono non essersi posti gli editori dell’ultima raccolta dello scrittore australiano uscita in Italia, Qualcosa per il dolore (Safarà, traduzione di Roberto Serrai, pp. 270, euro 19,00). La sfida sarà vincente se (e solo se) si scoprono immediatamente le carte. Proviamo.

Gerald Murnane è una scoperta resa tardiva anche dalla sua ritrosìa, dalla sua estraneità all’industria editoriale, dai suoi molti umili lavori resi necessari dalla indigenza della propria famiglia di immigrati irlandesi, sbarcati in Australia agli inizi del secolo scorso per scampare alla fame: una cornice che è al tempo stesso croce di chi la vive, e delizia dei giornali. Andiamo oltre.

Il suo nome, Gerald, viene da un cavallo da corsa, e Murnane scrive che lo ritiene «un segno di distinzione». Quel cavallo era stato una promessa ma si rivelò presto una delusione: succede a chi si dedica a questaforma di azzardo. Il padre di Murnane fu costretto a vendere la casa di famiglia, era la metà degli anni Cinquanta, per pagare i debiti con gli allibratori, ma pensò bene di investire una discreta somma in una scommessa successiva, e vinse quel che bastava alla caparra della casa ventura. E andò avanti così. Ma ciò che Murnane restituisce nelle sue cronache dal mondo dell’ippica non ha nulla a che vedere con i travagli della dipendenza dal gioco: il suo è un mondo in buona parte immaginario, senz’altro fantasticato, un mondo di magie performative, dove la concitazione dei radiocronisti mentre i cavalli guadagnano le lunghezze finali genera fantasmi mentali che precipitano sulla pagina e si agganciano ai pensieri vaganti di chi legge: e viene portato via, verso il traguardo di qualcosa che non capisce, gli è estraneo, non gli interessa, e tuttavia lo ha rapito.

«Spesso, per lui – scrive Murnane riferendosi al padre – le corse dei cavalli erano quello che a volte sono state per me: una specie di vocazione più alta, che ci esentava dal doverci occupare delle cose terrene». Magnifica sintesi delle impagabili ragioni di una passione: cosa si può volere di più e di meglio che venire sollevati dal qui e ora, con la chance di accantonare il più possibile la realtà, assegnandole il corridoio delle potenzialità irrealizzate. E in luogo della vita, forme confuse, schegge di colori, morbidi rimbombi di zoccoli accompagnati da parole asemantiche, scandite in perentori crescendo, mentre sempre più affannate e tuttavia intellegibili le sillabe dei cronisti si staccano a marcare la imperdibilità dell’attimo: di questo Murnane ha fatto il suo mondo.

Quando era bambino, chinato sul tappeto di casa, allineava le sue biglie, o disegnava la pista sulla sabbia del giardino: nasce così il Clement Killeaton che, nel 1974, Murnane avrebbe reso protagonista del suo esordio, Tamarisk Row (nome di un cavallo, naturalmente) scritto quando aveva ormai trentacinque anni; ma ci lavorava da dieci, e lo fantasticava da tutta la vita. Perciò cambiava e poi cambiava ancora, però il filtro attraverso il quale passavano le immagini che si sforzava di rendere scrittura restava l’iridescenza vitrea delle sue biglie colorate, che riflettevano le insegne delle scuderie, i mantelli dei cavalli, i prati delle piste e gli orizzonti delle predilette colline.

Qualcosa per il dolore non è una invocazione, né l’allusione a una catastrofe emotiva, bensì semplicemente un nome, probabilmente ascoltato alla radio, probabilmente di un cavallo: animale sul quale Murnane non è peraltro mai montato, ma che ha suggerito al suo talento il ritmo di una prosa esteticamente coinvolgente, qualunque significato si sia capaci di trarne: «ricordo l’effetto che aveva su di me recitare quei nomi cosi come li scandivano i cronisti delle gare. Il ricordo dell’effetto di quelle parole è cosi intenso che ancora oggi riesco a cancellare il significato che dà loro il dizionario e a rivedere il grappolo di immagini che stimolavano tanti anni fa e a rivivere gli stati d’animo legati a quelle immagini».