Un serie di omicidi mirati, all’ombra delle trame dei Talebani
Afghanistan La lista delle vittime include giornalisti, religiosi, politici, personale sanitario, attivisti e attiviste per i diritti umani
Afghanistan La lista delle vittime include giornalisti, religiosi, politici, personale sanitario, attivisti e attiviste per i diritti umani
La lista degli omicidi mirati si fa più lunga: Mohammad Yousuf Rashid, il direttore esecutivo della rete Fefa, Free and Fair Election Forum of Afghanistan, è stato ucciso ieri mattina a Kabul. «Ha bevuto una coppa di martirio per promuovere la democrazia», così il comunicato del Joint Civil Society Working Group, una delle coalizioni della società civile, di cui Rashid era un esponente conosciuto.
Da molti anni con la sua associazione monitorava infatti le elezioni, denunciandone irregolarità e brogli, cercando di promuovere quella democratizzazione che in Afghanistan è valsa perlopiù sulla carta, schiacciata da corruzione, interessi di parte, violenza. Rashid è stato ucciso mentre era nel suo veicolo, poco prima che annunciasse la nascita della Coalition for Peace Watch, una coalizione di attivisti con il compito di monitorare gli sviluppi del negoziato di pace tra Talebani e rappresentanti della politica e del governo.
Iniziato il 12 settembre a Doha, ha portato finora a un accordo sulle procedure da seguire in caso di controversie e all’intesa preliminare su alcuni punti dell’agenda negoziale vera e propria. Che verrà discussa a gennaio, dopo una pausa di tre settimane. Non c’è stata pausa, però, per il conflitto e per gli omicidi mirati. Non sono affatto una novità, ma negli ultimi mesi e settimane la frequenza e la scelta degli obiettivi sembrano rimandare a una strategia pianificata.
Tanto che ieri anche Unama, l’ufficio delle Nazioni Unite a Kabul, è intervenuta denunciando la questione, insieme alla gran parte delle ambasciate in Afghanistan. La lista delle vittime include giornalisti, religiosi, politici, personale sanitario, attivisti e attiviste per i diritti umani.
Alcuni esempi: il 21 dicembre Rahmatullah Nekzad, giornalista cinquantenne, alle spalle collaborazioni con Al Jazeera e con l’Associated Press e già a capo dell’Unione dei giornalisti della provincia di Ghazni, è stato ucciso nella sua abitazione con tre colpi in testa.
Due giorni prima, a Kabul, era toccato al parlamentare Khan Mohammad Wardak. Il 10 dicembre a Jalalabad veniva uccisa invece Malala Maiwand, giornalista 24enne e attivista. In quest’ultimo caso, l’omicidio è stato rivendicato dalla «Provincia del Khorasan», la branca locale dello Stato islamico. Per molti altri omicidi non c’è invece rivendicazione, nessuna responsabilità.
Una serie di episodi che mette in luce le debolezze dei servizi di sicurezza. Secondo il giornalista Zaki Daryabi, direttore del giornale investigativo Etilaatrooz e vincitore del premio Anti-corruzione 2020 di Transparency International – il ministro degli Interni avrebbe consigliato di chiudere l’impresa agli editori che non possono permettersi di comprare armi per proteggere i propri giornalisti. Da chi vadano protetti, non è chiaro.
Ma molti puntano il dito contro i Talebani, che starebbero preparando il terreno per il ritorno al potere. Eliminando tutte le voci dissenzienti e inviando messaggi intimidatori a chi vi si oppone.
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