Un segno rivoluzionario, piazza Tahir
Intervista Ganzeer, il graphic designer costretto all’esilio per non scomparire nelle carceri
Intervista Ganzeer, il graphic designer costretto all’esilio per non scomparire nelle carceri
25 gen 2011, dopo la Tunisia un grido si alzava quasi sottovoce nelle strade che convergevano verso piazza Tahrir, la marcia andava avanti imperterrita sui ponti sopra il Nilo affrontando i lacrimogeni, le pallottole di gomma e gli idranti dai furgoni della polizia. Tahrir non era solo una meta da raggiungere, era un punto d’inizio che avrebbe sconvolto per sempre la vita di molti egiziani. 18 giorni di lotte, di morti con gli scontri con la polizia o con i batagheyya, gli scagnozzi da quattro soldi che gli agenti segreti dell’ex presidente Mubarak aveva assoldato per spaventare i dimostranti. Più di 800 morti, martiri della rivoluzione. Al diciottesimo giorno Mubarak si dimise e un urlo attraversò la piazza e tutto il Medio Oriente: uno sconvolgimento simile non era previsto e nessuno pensava che il vecchio faraone potesse cedere, ma la piazza, i sindacati, gli scioperi, la gente erano stati più forti. Per altri due anni e mezzo attivisti, artisti, politici, rivoluzionari hanno cercato di combattere il regime dei militari e della polizia prima del colpo di stato del generale Al-Sisi del 3 luglio 2013 che ha fatto ripiombare l’Egitto in un incubo ancora più tremendo di quello dell’ex dittatore Mubarak.
«… Il tuo esercito s’inghiotte tutto, i tuoi cani fedeli abbaiano rallegrandosi con la palla Signore del sistema contorto, o splendente dattero marrone … o dattero, o dattero» sono versi di Bahala (Dattero) del cantante egiziano Ramy Essam (i Fratelli Musulmani chiamano Al-Sisi «dattero»). Ramy Essam fu il cantante della rivoluzione, negli scontri con la polizia nel gennaio/febbraio 2011 riportò ferite sul corpo e sul capo, vistosi segni di cicatrici sulla schiena.
Mohamed Fahmi, conosciuto in Egitto come Ganzeer, nel 2011 si prendeva gioco dei militari egiziani con i suoi adesivi e magliette della «Maschera della libertà» in cui denunciava la l’ipocrisia e le bugie dello Scaf (Consiglio Supremo delle Forze Armate), disegnava carri armati sotto i ponti del Nilo, raffigurava i martiri caduti in piazza Tahrir nei 18 giorni di occupazione.
La parabola di Fahim e di Essam è quella di molti altri egiziani che sono stati perseguitati dal regime di Al-Sisi e costretti ad esiliare per non scomparire nelle carceri egiziane. In Egitto, «dal colpo di stato del 2013, le autorità egiziane hanno probabilmente arrestato come minimo 60mila persone, centinaia al mese scomparse forzatamente, inflitto condanne preliminari ad altre centinaia, migliaia di civili processati nei tribunali militari, costruzione di 19 nuove prigioni per contenere questo afflusso»(Human Right Watch report).
Ganzeer è un graphic designer e uno street artist che il New York Times ha equiparato a Banksy ed a Shepard Fairey e che ormai vive in esilio a Houston dal 2014.
Perché sei dovuto scappare?
Era a metà del 2014, c’era un programma politico sulla televisione egiziana, alla fine di una puntata fu mostrata la mia immagine che affermava che Ganzeer era il leader di una coalizione artistica internazionale che tramava per distruggere i militari egiziani. Come prima reazione ho riso, ho pensato che fosse una cosa di poco conto, che era solo il punto di vista di un opinionista. Ma il giorno dopo la stessa storia era ripresa da due giornali con due articoli identici senza che divergessero di una virgola e che riportavano fedelmente le accuse del conduttore della trasmissione televisiva. Mi insospettiva e ho pensato che probabilmente non era l’opinione di un critico politico, ma che fosse uno spartito consegnatogli da qualcuno della sicurezza anche se è difficile esserne sicuri. Il fatto che le sue parole e quelle dei giornali fossero identiche mi ha messo in allarme e così ho deciso di andarmene.
Ganzeer, come è la situazione degli esiliati egiziani all’estero? Sei in contatto con Ramy?
Sì e no. Siamo in contatto, ma non siamo esiliati nello stesso posto, con la diaspora egiziana siamo sparsi un po’ in tutto il mondo. Credo che Ramy non abbia nessuno in Svezia, non ho nessuno qui a Houston, siamo disseminati un po’ ovunque, la distanza rende difficile essere in contatto in una modo più profondo, personale. Un evento straordinario fu il concerto di Ramy a Washington nel gennaio del 2019, molti altri egiziani vennero a vederlo. Fu un momento eccitante e d’ispirazione per tutti noi della diaspora essere finalmente in uno stesso luogo. Ho visto molte persone che conoscevo anche solo di sfuggita al Cairo. Certo, ci teniamo in contatto su Facebook, Instangram … ma non è la stessa cosa.
Come è il tuo lavoro oggi?
C’è poco di street art, il mio lavoro è più incentrato sulla mia situazione, ovviamente ora che c’è una distanza considerevole tra me e l’Egitto. Il mio lavoro è meno relazionato con il momento attuale ma più connesso alla reazione immediata, più riflessivo, alcuni progetti sono più a lungo termine, per esempio sto lavorando a un graphic novel che è influenzato dai principi della rivolta egiziana e dal combattere l’oppressione. Considerando che ho tutto questo tempo, questa distanza, posso lavorare ad un progetto che può durare anni.
Come riporta Middle East Eye, il 20 settembre del 2019 Ganzeer ha postato su Instangram un suo disegno che ritraeva Al Sisi con la maschera di un ladro di appartamento e la scritta «Arrestate Al Sisi, liberate l’Egitto» e ancora più sotto «Abbasso i traditori, i rimasugli del regime e la Fratellanza Musulmana». Nel giro di poche ore il post è diventato virale e quell’immagine fumettistica di Al Sisi si è trasformata nello stendardo internazionale dei dissidenti egiziani all’estero ed in patria.
Dai massacri dei gruppi affiliati ai Fratelli Musulmani nelle piazza Al Nahda e Rabaa al Adaweyya al Cairo nell’agosto del 2013 che hanno seppellito la rivoluzione egiziana attraverso leggi repressive. Al Sisi ha creato un proprio feudo, un potentato non solo politico, ma anche economico mentre migliaia di egiziani si sono trovati al lastrico in questi ultimi 8 anni.
Sei spaventato che qualcosa possa accadere alla tua famiglia in Egitto?
Tutta la mia famiglia è a favore di Al Sisi
Pensi che le autorità egiziane continuino a perseguitarvi anche all’estero?
È difficile dirlo con certezza, posso immaginare che ci tengano d’occhio pronti ad agire alla prima occasione come per un giovane di nome Mustafa, di cui non ricordo il cognome, che rientrò in Egitto e fu fermato in aeroporto.
Conosci i casi di Patrick Zaki e Giulio Regeni?
Non conosco il caso di Patrick Zaki. Per Regeni sono rimasto sorpreso come tanti altri, sono convinto che la sua ricerca sui sindacati fosse innocua per il regime, credo che a qualche bastardo della sicurezza gli sia sfuggita la mano, una persona che prova piacere nella tortura … lo hanno fatto a così tanti anche prima e l’hanno sempre fatta franca perché non importava a nessuno, forse hanno pensato la stessa cosa con Regeni.
Pensi che questa situazione di oppressione in Egitto finirà prima o poi?
Sono certo che la gente si solleverà ancora contro il regime, certo ora sembra una follia, ma si deve immaginare che milioni di persone sono state capaci di destituire Mubarak, che hanno rischiato la loro vita per ragioni e proteste reali … ora avere Al-Sisi, di nuovo la polizia militare e tutte queste cose, quando le persone sono oppresse non si occupano veramente di queste cose perché le pospongono. Quindi fino a che il problema esiste la gente insorgerà. La domanda è quando: domani? Tra 10 anni? Tra 20? Non è questo il punto, il punto è che le persone insorgeranno, il dilemma è capire se sarà una rivoluzione temporanea o sarà un risultato di un cambiamento più sostenibile.
E come raggiungere un cambiamento più sostenibile? Come evitare le polarizzazioni e le differenze che si erano create durante la rivoluzione tra i Fratelli Musulmani ed i rivoluzionari?
Dal mio punto di vista è importante avere differenti opinioni all’interno della popolazione, differenti ideologie. L’idea che la popolazione debba essere per forza omogenea ed identica è assurda, le differenze sono sempre là. È un problema come usare queste differenze per creare un ambiente ricco di molteplicità, un’esistenza che abbia diversi modi di vivere o se invece si usano queste differenze per fare in modo che la gente si combatta l’un con l’altra. È interessante che le insurrezioni militari nel corso della storia e in ogni posto nel mondo portino solo a regimi dittatoriali, questo è quello che fanno per ottenere il controllo, hanno bisogno di persone che si combattano a vicenda in modo da dire “Ok, ok, ok ci pensiamo noi a migliorare la situazione, se rimaniamo al governo preserveremo con il nostro sistema”, useranno sempre queste scuse. I militari hanno la loro ideologia: militarismo e interessi economici perché le dittature hanno sempre un sistema economico che avvantaggia i generali che sono al potere, sia esso un sistema capitalista o comunista … Quello che voglio dire che non è un problema di differenze perché queste ci permettono di vivere in modi diversi all’interno delle stesso luogo. E l’unico modo per ottenere questo è eliminare la dittatura militare, terminare le influenze che i militari esercitano sul governo. È importante creare una forma di governo che includa tutti nella società: dico no a tutti capitalisti, no a tutti comunisti, no a tutti militari, no a tutti religiosi.
Marie Duboc, già professoressa alla Tuebingen in Germania attualmente collabora con l’università della Sorbona in Francia interviene così sul caso Giulio Regeni «… c’è molta confusione quando dichiari di essere un ricercatore. C’era uno scherzo in Egitto durante il mio dottorato che equiparava la figura del ricercatore a quello di una spia. Io come altri ricercatori lo abbiamo vissuto sulla nostra pelle e sfortunatamente anche Giulio che sicuramente sarà stato visto come un agente straniero, un pericolo per il potere stabilito. Il regime egiziano si sente minacciato quando la ricerca è incentrata sui fenomeni sociali e politici di cui non vuole si parli. Se si scrive su alcuni gruppi sociali che non sono apprezzati dal regime o che sfidano le pratiche del regime, quest’ultimo non vuole che questi gruppi vengano rivelati. Inoltre in Egitto c’è una grande confusione su cosa significhi ricerca: è comprensione, si usano dei metodi specifici, ci si confronta con la letteratura esistente, si vuole comprendere il processo, ciò non significa che tu sia un agente segreto predisposto a minacciare o supportare un regime. Questo rappresenta il disprezzo che ha Al-Sisi per la ricerca».
La professoressa Duboc doveva iniziare a lavorare presso l’Università Americana del Cairo a settembre del 2011 ma fu bloccata all’aeroporto della capitale egiziana per tutta la notte e costretta a prendere un volo di ritorno per Parigi il giorno successivo. «Certamente era correlato alla mia ricerca sulle organizzazioni lavorative in Egitto (Protests without organizations? Mobilization strategies, casualization and spaces of visibility in textile workers’ strikes in Egypt 2004-2010), ma le autorità egiziane non comunicano apertamente il motivo per cui non sei ben accetto nel paese. I ricercatori ed i giornalisti sono sempre stati considerati una minaccia per le autorità egiziane, poteva capitare di essere espulsi o di vedersi rispediti a casa come capitò a me sebbene in quel periodo non credo che esistesse una minaccia reale alla vita degli stranieri, era più facile sbarazzarsi di loro espellendoli o vietando l’ingresso nel paese».
Perché il settore lavorativo come oggetto di ricerca è così sensibile per l’amministrazione egiziana?
C’è sempre stata molta ansia da parte del regime sia prima che dopo Mubarak riguardo l’argomento del lavoro per la presenza di un movimento organizzato che ha sfidato le autorità costituite. Ciò ha causato scioperi e movimenti sociali in Egitto già a partire dal 2000, ci sono state grandi ondate di proteste che provenivano dai lavoratori e penso che ci fosse molta preoccupazione al tempo di Mubarak e che esiste ancora. Con Al-Sisi il movimento dei lavoratori non si è fermato, ha continuare a domandare e dare voce alle proprie istanze. Penso che Giulio Regeni stesse facendo una ricerca sui sindacati indipendenti e specialmente quelli del settore non regolamentato. Le organizzazioni dei sindacati per ottenere un certo potere nello Stato sfidavano le autorità provando ad organizzare un più largo numero di gruppi di lavoratori. Questa azione spaventa ogni tipo di regime politico che prova a controllare la vita pubblica, è più impegnativo controllare un numero ampio di gruppi che provano ad organizzarsi per dar voce ai propri diritti … si può dire che c’è continuità tra il regime di Mubarak e quello di Al-Sisi nell’imporre una stretta sui sindacati e sulla loro volontà di rimanere indipendenti dal controllo statale.
Sì, la differenza sostanziale purtroppo verte proprio sull’impunità di cui godeva l’occidentale in un certo modo durante il regime di Mubarak e che sotto Al Sisi è invece scomparsa. Torture e sevizie esistevano, ma erano soprattutto destinate agli egiziani e agli africani. Le testimonianze dei soprusi rimanevano solo nei report di Ong come Amnesty International e Human Rights Watch, anonimi, fogli bianchi di persone scomparse nel deserto, seppellite sotto strati di sabbia, sconosciuti, dispersi … emblematico è il film di Ibrahim El Batout con il suo film Winter of Discontent che denunciava i soprusi e torture del regime di Mubarak o, come prima di lui, Yussef Chahine nel film Hiyya Fauda. Percosse, elettroshock, mozziconi di sigaretta spenti sulla pelle, percosse, ossa spezzate … sono uno dei motivi della rivoluzione egiziana del 2011 al grido di pane, giustizia e libertà.
La rivolta è durata 2 anni e mezzo, prima del colpo di stato di Al Sisi, un altro uomo forte che è riuscito a ricostruire gli apparati dei servizi di sicurezza egiziani ritornando indietro, inspessendo la durezza dell’ex regime di Mubarak. «Uso illegittimo dell’isolamento prolungato in cella (fino a 24 ore al giorno, quindi mancanza di contatto umano significativo), torture sui prigionieri, scarse condizioni igieniche, malnutrizione tra i detenuti, mancanza di un autorizzazione da autorità competenti, mancanza di un giusto processo, nessun trattamento particolare per i prigionieri costretti nel braccio della morte, privazione ai detenuti di ricevere visite dai familiari (fino a un prolungato periodo di 18 mesi), pessime condizioni delle celle d’isolamento, ripercussioni psichiche per i prigionieri in isolamento (allucinazioni, attacchi di panico, paranoia, mancanza di autocontrollo, ipersensibilità agli impulsi esterni, difficoltà a pensare e concentrarsi, mancanza di memoria …) e fisiche (palpitazioni, mal di testa, sensibilità alla luce, dolori muscolari, problemi di digestione, capogiri, perdita di appetito e peso, dolori alle ossa e alla schiena …)», Amnesty International report MDE 12/8257/2018.
Questo era il sistema di Mubarak, questo è il sistema di Al Sisi.
«La prima volta che ho visto Hisham dopo l’arresto è stata in ospedale. In quell’occasione mi ha raccontato cosa fosse stato l’isolamento. La cella era buia e non riusciva a vedere nulla. Aveva difficoltà a respirare perché non c’erano finestre né fonti d’aria. Era come essere sepolto vivo. Quando finalmente è stato trasferito dalla cella d’isolamento, gli è sembrato di rinascere. Ma dopo pochi mesi nel reparto ospedaliero del carcere, è stato rimesso in isolamento» (Said Manr el-Tantawie, moglie di Hisham Gaafar, in isolamento nella prigione di al-Aqrab, Lo scorpione, MDE 12/8257/2018).
* Autore di «Le voci di piazza Tahir» e «La rivoluzione tradita, la fine delle ideologie islamiche» (Poiesis Editrice)
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