Un «salto» verso le contraddizioni dell’esistenza
FILOSOFIA L'ultimo saggio di Sergio Givone: «Quanto è vero Dio», per Solferino editore
FILOSOFIA L'ultimo saggio di Sergio Givone: «Quanto è vero Dio», per Solferino editore
Con Quanto è vero Dio. Perché non possiamo fare a meno della religione (Solferino editore, pp. 186, euro 16) Sergio Givone, noto e importante filosofo contemporaneo, affronta il grande tema dell’irrinunciabilità del pensiero religioso per la tradizione filosofica occidentale che ha affermato la morte di Dio. È una grande questione «russa» (in Tolstoj, Dostoevskij, Bulgakov il mistero del finalismo cristiano segna il limite dialettico del fine comunista progettato dall’uomo e per l’uomo) del tutto attuale: la lettura apocalittica di regimi novecenteschi intesi come occasione di svelamento di una verità e di un fine diversi, quando non opposti, rispetto a quelli previsti e programmati dalla ragione umana è stata resa in anni recenti da Massimo Cacciari e da Giorgio Agamben. Givone si richiama a questa lettura del momento politico, e siccome essa presuppone e non risolve il problema del male nella storia, sorretto da secoli di teologia razionalistica il filosofo affronta il rapporto tra Dio e il male risolvendolo col principio di non contraddizione: poiché Dio è amore, dire che Dio vuole il male significherebbe dire che «è l’Amore a odiare, il che è palesemente contraddittorio», scrive l’autore.
L’ARGOMENTO chiede e merita di essere preso sul serio; propongo dunque qualche spunto per future discussioni. È ammissibile l’applicazione al divino di categorie logiche umane? Davvero Dio è costretto – cioè «necessitato» – dal principio di non contraddizione? Il più geniale interprete novecentesco del mistero divino, Karl Barth, ci ricorda che la trascendenza di Dio è anzitutto radicale irriducibilità alla ragione umana.
IL CARATTERE anti-logico o alogico o paradossale del mistero divino comporta il suo essere non sintesi ma simultanea coesistenza: in questo senso Dio, spiega Gregorio di Nazianzo (sec. IV d.C.), Dio è pelagos ousìas, cioè «mare di essere» (di qui Dante in Paradiso, I, 112-13: «onde si muovono a diversi porti / per lo gran mar dell’essere»). Il mistero di Dio è insomma anche quello della compresenza di opposti che si fondano reciprocamente recando in questo fondamento non solo il principio della reciproca sussistenza ma anche quello della reciproca negazione. Inoltre, anche ammettendo l’applicazione a Dio di categorie logiche, proprio sul piano logico l’essenza correlativa di due termini che si negano a vicenda e non sussistono l’uno senza l’altro costituisce il punto debole del principio di non contraddizione: il concetto non sussiste se non autocontraddicendosi, cioè implicando nel suo sussistere ciò che lo delimita e lo nega. Applichiamo il ragionamento a Dio: se è amore, implica in sé il principio di delimitazione del bene, cioè comporta e permette il correlativo sussistere del male.
CONCLUSIONE: la relazione tra Dio e il male o è, a norma di logica, positiva e sostanziale, o è, a norma di irriducibilità divina alla ragione umana, inconoscibile. È solo questa seconda opzione a lasciar spazio al «salto» della fede, cioè all’accettazione del mistero e alla «scommessa» sul bene, oppure al «salto» etico e laico di Albert Camus: poiché la sostanzialità del male è innegabile, combatterlo è una inconcludente fatica di Sisifo eppure è necessario per l’uomo «immaginare Sisifo felice»: agire e combattere come se il male fosse eliminabile. Alla possibilità generale – e perciò, in sostanza, astratta – che il male sia nell’uomo e coincida con una sua colpa, quella cioè del peccato originale ripresa da Luigi Pareyson con la celebre domanda sul perché «un essere malvagio e meschino come l’uomo dovrebbe avere un qualche diritto alla felicità», Camus avrebbe risposto che di fronte alla sofferenza concreta di un singolo innocente – di questo o quel bambino, per dire – non c’è ragionamento che tenga. Conoscere attraverso la sofferenza significa riconoscere la propria colpa, dice Givone (è l’intuizione di Antigone secondo cui «poiché soffriamo, capiamo che abbiamo sbagliato»), ma quanto si è detto comporta una conclusione opposta e non meno tragica, in base alla quale Antigone direbbe: poiché soffriamo essendo innocenti, capiamo che c’è un errore, e non è il nostro.
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