Un’umanità ai margini è in costante movimento tra i muri scrostati in bianco e nero con le tracce di un rosso che è più che mai simbolico e il palinsesto coloratissimo di manifesti, ritagli di giornale con le vedute panoramiche, foto della Jama Masjid, santini indù: Andrea de Franciscis (Napoli 1981) cattura l’istante nel tentativo di dare forma a un presente incerto. Delhirium, progetto vincitore del premio Marco Pesaresi 2021 (il lavoro era stato scelto proprio per la «narrazione polifonica con un punto di vista policentrico, cercando di aderire con empatia a una realtà, quella della megalopoli indiana, che ci appare quanto mai caotica e multiforme») è esposto nelle sale del Consorzio Bonifica, nell’ambito della 31/a edizione del festival Si Fest dal titolo Asinelli solitari (direttore artistico è Alex Majoli) fino al 2 ottobre. Tre sono le microstorie che trascinano l’osservatore nel racconto evocativo e viscerale che l’autore ha «collezionato» durante i dieci anni in cui ha vissuto nella capitale dell’India mentre, parallelamente, svolgeva l’attività di fotoreporter freelance (con una laurea in medicina) per testate internazionali quali Al Jazeera, Time, National Geographic.

Andrea De Franciscis, foto di Manuela De Leonardis

Ci sono voluti dieci anni per realizzare «Delhirium», un lavoro viscerale…
L’ho realizzato tra il 2011 e il 2021 quando ho vissuto a Delhi con la mia compagna. Tornavamo in Italia sono nei mesi estivi, quando lì è impossibile lavorare per via dei monsoni e del caldo. Abitavamo a Boghal, un quartiere a sud in cui risiedono i rifugiati afghani. È stata un’esperienza stupenda poter vivere in un posto così immenso come Delhi, che ti fa sembrare una formichina. Dopo qualche anno che ero in India ho sentito l’esigenza di trasportare quest’esperienza di vita dentro le immagini. Nel lavoro di reporter bisogna avere uno sguardo e un apporto molto più didascalico, perché si deve raccontare la storia, invece per questo lavoro personale mi sono preso delle libertà, sia in fase di scatto che di elaborazione. Quando mi sono dovuto operare per la prima volta alla schiena e per quattro/cinque mesi non mi sono potuto muovere ho cercato nuove forme di linguaggio. Avevo collezionato delle foto d’epoca indiane colorate a mano, trovate nei mercatini da cui ho tratto ispirazione per colorare le mie stampe in bianco e nero.

Il progetto ha preso forma in maniera più organica con il rientro in Italia. È servito un distacco emotivo?
Sì, ha preso forma completa con l’editing quando ho lasciato l’India, ma in realtà è cresciuto mentre ero lì. Ogni giorno mi ritagliavo un paio d’ore, sia la mattina che la sera, per uscire a fotografare. Ho una quantità infinita di scatti, prevalentemente in pellicola, poi ci sono le foto fatte con il telefonino e in digitale. Hanno formati diversi, realizzate con vari apparecchi, dalla camera panoramica alla polaroid.

Questa visione caotica e frammentaria di New Delhi è popolata anche da molti animali, scimmie, elefanti, stormi di pipistrelli, corvi, pappagalli…
Paradossalmente, nonostante sia una città dove vivono 30 milioni di persone, a Delhi c’è una fortissima presenza del verde. Una foresta è al centro della città. Ci sono pipistrelli, aquile, corvi… È veramente un «caso» non solo umano. New Delhi è una città piena di contraddizioni, vitale, dove niente funziona, ma tutto funziona.

Nelle foto vediamo soprattutto uomini, adulti e bambini, ci sono anche «hijira», ma poche donne. Come mai?
L’India è un paese in cui la discriminazione nei confronti delle donne è ancora forte e questo non solo da un punto di vista religioso, sia induista che musulmano. Soprattutto negli ultimi anni, con Modi al potere, c’è stata un’estremizzazione e una spinta verso il nazionalismo: ciò ha comportato, innanzitutto, che il modello occidentale, capitalistico, dal modo di vestire ai comportamenti sociali, sia stato sempre più represso. Sta influenzando anche le giovani che ritornano alla cultura della copertura del capo. Questo cambiamento sociale è evidente nelle strade: mi piace scattare al buio e dalle 18 in poi non gira nessuna donna.

C’è un motivo per cui la visione evocativa (e un po’ nostalgica) è affidata allo sfocato?
Uso lo sfocato, il «micromosso» che per me è l’equivalente del rumore di fondo che c’è sia di giorno che di notte. A livello visivo, mi permette di rappresentare il movimento e la sensazione di come si possa vivere in una città come Delhi.

Invece la nostalgia?
La nostalgia ma anche la crudezza. Di solito davanti a quella crudezza le persone si voltano dall’altra parte, io invece non solo non mi volto, ci metto la mano. Negli ultimi anni la fotografia è diventata qualcosa di molto estetico dove c’è poca sostanza, a me interessa più far provare un’emozione che mostrare una bella immagine.

Durante la realizzazione di «Delhirium» ha avuto modo di frequentare Lorenzo Castore e Michael Ackerman: ci sono state influenze nel lavoro?
Scendevo in strada per scattare con loro e ci vivevo per una parte della giornata, dormivano anche da me. Abbiamo trascorso un mese e mezzo insieme quando sono venuti – tre volte – a New Delhi. Ad indirizzare il mio lavoro è stata soprattutto la loro maniera di scattare, l’energia che mettono in un progetto, il loro modo viscerale di affrontare un tema. Questo loro guardare con lo stomaco è stata una lezione imprescindibile e spontanea.