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Un «quantitative easing» per il popolo

Un «quantitative easing» per il popolo

Uscire dalla crisi Come e perché redistribuire l’immensa quantità di denaro della Bce. La proposta per l’agenda politica della sinistra

Pubblicato circa 9 anni faEdizione del 22 settembre 2015

La Fed ha deciso di rinviare la fine della pratica del rinviare, cioè quella che Wolfang Streeck descrive come la logica del «prendere tempo comprandolo con l’aiuto del denaro» per allontanare i problemi. La scelta di perdurare con il denaro a costo zero, però, costituisce solo un rinvio verso una nuova e più delicata fase, in cui probabilmente aumenterà il livello di conflittualità non solo commerciale di un’economia mondiale che, con il suo elevato tasso di interdipendenza, comincia a scricchiolare da più parti. L’espansione della funzione della moneta a debito di questi anni comincia a creare scompensi globali. Sul «Sole 24 Ore» in queste settimane Donato Masciandaro ha ripetutamente denunciato come la Fed non stia applicando una «regola monetaria», cioè una strategia da annunciare ex ante e su cui rendere conto ex post. La mancanza di regole, a suo dire, potrebbe essere giustificata in tempi straordinari, ma il suo protrarsi ostacola il ritorno alla normalità. Quello che chiede, dunque, è un esplicito giudizio della Fed sulla fase in cui siamo (stagnazione secolare o ripresa?) e delle scelte definite intorno a dinamiche interne (gli incontrovertibili tassi di disoccupazione e inflazione). Un vecchio adagio di chi considera l’economia scienza esatta e che rimuove la logica che guida le scelte della Fed, cioè quella di considerare gli effetti delle proprie decisioni su scala nazionale coniugati con quelli internazionali. Il dollaro, infatti, costituisce ancora la moneta di riserva mondiale e le ripercussioni vanno dal locale al globale e viceversa.

Il punto di passaggio delle scelte della Fed, come sottolinea Marcello De Cecco, è la Cina: attraverso l’Impero Celeste l’effetto delle azioni americane si spande su tutto l’universo dei produttori di materie prime come Brasile, Argentina, paesi africani. Ma il coinvolgimento attraversa anche i paesi produttori di beni di investimento come Germania, Giappone, Corea. A questo punto la crisi cinese (che è crisi economica e politica, nel senso di una lotta interna al partito comunista attorno alle riforme) aggiunge alla stagnazione una pressione deflazionistica che vanifica l’efficacia delle politiche di «quantitative easing» finalizzate all’aumento del tasso di inflazione. Le difficoltà cinesi, che si manifestano nel calo delle esportazioni e nel rincaro delle importazioni, stanno riducendo a vista d’occhio le (enormi) riserve valutarie detenute dalla banca centrale cinese, tant’è vero che per contenere la svalutazione del reminbi i cinesi hanno venduto buoni del Tesoro statunitensi per oltre 100 miliardi di dollari. Questo potrebbe indicare la fine dell’equilibrio Stati Uniti-Cina costruito negli ultimi trent’anni (acquisto del debito americano con il surplus commerciale cinese).

La scelta sui tassi, inoltre, va inquadrata nelle dinamiche determinatesi a monte con le politiche di qe, con l’immissione di una marea di liquidità nel sistema, la quale per un verso ha fornito nuovo ossigeno e per l’altro ha dato vita a fenomeni distorsivi oltre che socialmente sperequativi. La spinta all’indebitamento facile non si è certo esaurita intorno ai paesi occidentali, infatti fenomeni di indebitamento in valuta estera hanno coinvolto anche le imprese dei paesi emergenti. Complessivamente la Bri calcola che le imprese non statunitensi abbiano un debito in dollari di ben 9.600 miliardi. Oggi la medesima ricerca di un facile indebitamento coinvolge le imprese americane nel qe europeo. L’aumento del dollaro di quest’anno poi grava sulle imprese costrette a misurarsi coi processi di sovraproduzione in corso proprio negli emergenti. Al ristagno dell’economia reale va aggiungendosi il peso dei debiti. L’aumento dei tassi aggraverebbe, o meglio aggraverà, ancor più il quadro. Tutto ciò ha ripercussioni anche interne al contesto americano sia sul versante finanziario sia su quello economico. L’enfasi sulla ripresa, infatti, appare dubbia, in quanto il basso tasso di disoccupazione (5,1%) non significa niente a fronte di un tasso di partecipazione della forza-lavoro che non era mai stato così basso (63%), di appena il 40% di occupati con più di 30 ore a settimana e di salari che non accennano ad aumentare (il modello della Fed, per quanto riguarda l’aumento dei tassi di interesse, prevede, oltre all’aumento dell’inflazione e al calo della disoccupazione, anche un aumento dei salari).

La decisione della Fed, a nostro parere, conferma la tesi della “stagnazione secolare”, in particolare di una carenza strutturale di domanda aggregata conseguente alle politiche distruttive del mercato del lavoro (precarizzazione, bassi salari, aumento del lavoro gratuito…). Le stesse politiche di «Qe» della Bce, che pure nei primi sei mesi dalla loro implementazione avevano contribuito ad uscire dal credit crunch, specie in paesi, come l’Italia, in cui le banche detengono una grande quantità di titoli pubblici, sono costrette a confrontarsi col problema della stagnazione della domanda interna e esterna e con quello dell’intermediazione bancaria. L’azzardo del «Qe» in un contesto, come quello europeo, in cui si cerca di ridurre il debito, è quello di una domanda eccessiva di titoli pubblici tale da azzerare i rendimenti, con conseguente rischio di una crisi dei fondi pensione, maggiori detentori di buoni del tesoro. Per l’uscita dalla stagnazione e per sottrarsi agli schemi dominanti non varrebbe la pena lanciare un progetto per la distribuzione di parte della liquidità direttamente ai cittadini europei? Perché non un «Qe for the People»?

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